G. Firpo (Chieti), I due volti dello ‘zelo’ nelle guerre giudaiche di liberazione
Lo zelo per Dio e per la Legge è la fondamentale motivazione religiosa
delle guerre giudaiche di liberazione a partire dalla rivolta dei Maccabei (167
a.C.) fino all’ultima, al tempo di Adriano (132-135 d.C.). Il modello
storico di questa concezione è costituito dall’azione di Pinehas,
nipote di Aronne, e di Elia, che, con la loro iniziativa, stornarono da Israele
l’ira divina, uccidendo apostati e idolatri. Lo zelo di Mattatia, padre
dei fratelli Maccabei, e quello dei suoi figli – in opposizione alla persecuzione
religiosa di Antioco IV Epifane - ebbe, come conseguenza di medio termine, sul
piano storico-politico, la liberazione della Giudea dalla dominazione seleucide
e la fondazione dello Stato indipendente asmoneo, anche grazie al potente appoggio
diplomatico di Roma. Una estensione qualitativamente diversa, e assai più
ampia, del concetto di zelo – peraltro già elebarata da tempo nel
pensiero tardogiudaico - venne progressivamente affermandosi sul piano storico
a partire dall’invasione della Giudea da parte di Pompeo e dalla sua profanazione
del tempio di Gerusalemme (63 a.C.). Lo zelo per Dio e per la Legge non fu più
finalizzato alla riconquista della libertà religiosa e alla cacciata
dello straniero oppressore, ma – in linea con una forma di escatologismo
apocalittico già presente nella produzione letteraria di II secolo a.C.
(Daniele e Libro dei Sogni, soprattutto) ma che, a quel tempo, non aveva avuto
conseguenze sul piano operativo – fu considerato come elemento indispensabile
alla collaborazione tra uomo e Dio per l’estirpazione dell’idolatria
dal mondo intero, in una visione cosmica che prevedeva, negli ultimi tempi della
storia, una battaglia finale tra le forze del Bene (umane e celesti) e quelle
del Male (umane e infernali); la potenza terrena che rappresentava le forze
del Male era ormai divenuta Roma.
Sulla base di queste premesse, vengono considerate le scelte operative di tipo
militare dei vari gruppi di resistenza antiromana durante la guerra giudaica
del 66-70 d.C.: zeloti, briganti/ladroni, sicarii, barjone, “galilei”,
“idumei”. L’indagine non è semplice, in ragione della
natura delle fonti: da un lato, l’opera – peraltro fondamentale
- di Giuseppe Flavio offre più di una ragione di incertezza, vuoi per
una certa disorganicità strutturale, vuoi per determinate scelte dell’autore,
sempre attento alla presentazione e alla difesa del proprio operato sia nei
confronti dei romani che nei confronti dei propri compatrioti; d’altro
canto, le fonti rabbiniche presentano, accanto a indicazioni di grande significato,
problemi d’origine diversa, derivanti dalle scelte “strategiche”
operate dal rabbinato dopo le catastrofi del 70 e del 135.
Nonostante tutto ciò, è possibile individuare, almeno per alcuni
gruppi, modalità operative specifiche, peraltro suscettibili di evoluzione
nel tempo. Alcuni dei rivoltosi si ispirarono, almeno all’inizio e ancora
per un certo periodo, a uno zelo di tipo “maccabaico”, con finalità
precise e ben ancorate alla storia; altri invece considerarono la rivolta antiromana
come l’inizio della lotta cosmica di liberazione che si sarebbe conclusa
con l’eliminazione della grande potenza idolatra e con l’instaurazione
del regno di Dio sulla terra. La radicalità di questa prospettiva, a
cui era estranea qualsiasi possibilità di compromesso e che era inevitabile
premessa di sciagure e catastrofi, si rifletteva naturalmente sulle scelte di
carattere militare: da qui, alcune considerazioni sul ricorso a tattiche definibili,
con terminologia moderna, “terroristiche” (come è stato fatto
in una recente edizione dell’Autobiografia di Giuseppe Flavio).