Convegno 2004: Popolo e potere nel mondo antico

Riassunti degli interventi




Giuseppe Gilberto Biondi (Parma), Potere e popolo in Seneca

Il tema del "potere e popolo" in Seneca diventa subito problema non solo per la sua 'frantumazione', diacronica e diatopica, in tutta l'opera del filosofo-poeta, ma anche e soprattutto per la abbondanza e contraddittorietà delle interpretazioni che ne sono state date.




Angelos Chaniotis (Heidelberg), Macht und Volk in den kaiserzeitlichen Inschriften von Aphrodisias

Das reiche epigraphische Material aus Aphrodisias vermittelt auf den ersten Blick den Eindruck einer autonomen, selbstverwalteten und freien Gemeinde, in der das Volk (Demos) bei allen Entscheidungen die wichtigste Rolle spielt. Die Freiheit und Autonomie der Stadt wurde wiederholt von römischen Kaisern bestätigt und von Statthaltern sehr ernst genommen. Und doch zeigen einige Kaiserbriefe, wie z.B. der jüngst veröffentlichte Brief Hadrians (SEG L 1096) und einige Auszüge aus Testamenten, daß die Bevölkerung der Stadt mit Interventionen der römischen Verwaltung rechnen mußte. Eine ähnliche Diskrepanz stellt man auch bezüglich der Rolle des Volkes und der Volksversammlung fest. Auf der einen Seite erscheint das Volk (Demos) als Initiator und Urheber aller Entscheidungen (z.B. MAMA VIII 408) - manchmal ohne Nennung des Rates / Boule -, als Empfänger von Weihungen (MAMA VIII 438, 439, 445, 448, 449, 450), als Adoptivvater von Mitglieder der Elite (MAMA VIII 500: hyios demou) als Empfänger von Ehrungen durch den Rat (unveröffentlichte Texte). Auf der anderen Seite zeigen die Inschriften die Existenz einer erblichen Klasse von Honoratioren (prote taxis, z.B. MAMA VIII 408), die das Leben der Stadt maßgeblich beeinflußte. Der Raum der öffentlichen Kommunikation zwischen Elite und Volk war die Volksversammlung; die Kommunikation nahm zuweilen in der Form von durch Zurufe vorgetragenen Forderungen des Volkes (z.B. MAMA VIII 410) und von per Akklamation getroffenen Entscheidungen (z.B. MAMA VIII 499 a: epeboesan). Die ausdrückliche Betonung, daß einige dieser Entscheidungen einvernehmlich (homothymadon) getroffen wurden (z.B. JHS 20, 1900, 74, Nr. II) zeigt, daß dies nicht immer der Fall war. Daß das Verhältnis zwischen dieser Elite und dem Volk nicht immer spannungsfrei war, geht auch aus dem Testament des Adrastos hervor, der damit rechnen konnte, daß der Druck der Maße (ochlike katabaresis) seine testamentarischen Verfügungen ändern könnte (MAMA VIII 413 a). Die Spannung zwischen Elite und Volk geht schließlich auch aus der Rhetorik der Ehrendekrete hervor, die manchmal das Wort demos vermeiden, um stattdessen von Stadt (polis) oder Vaterland (patris) zu reden (z.B. MAMA VIII 412). Die Zeugnisse aus Aphrodisias sind keineswegs isoliert im griechischen Osten; sie erlauben uns, ein besseres Bild von der politischen Wirksamkeit des Volkes und der Volksversammlung zu gewinnen.




Giovannella Cresci (Venezia), Il popolo e l'esercito nella concezione cesariana ed augustea

L'intervento si propone non già di analizzare a livello evenemenziale e fattuale come Giulio Cesare prima e Ottaviano Augusto poi utilizzassero politicamente l'esercito e le masse popolari ai fini della realizzazione dei propri disegni, (tema già ampiamente affrontato dalla critica); intende invece

Per quanto attiene i primi due punti, attraverso le testimonianze di Plutarco e di Cassio Dione, si contrapporranno la visione di Cesare a quella di Cassio sul tema del rapporto stato-esercito, cogliendo echi nelle arringhe cesariane ai soldati di una concezione politica, per altri versi ampiamente occultata nei suoi commentarî. Si passerà quindi ad analizzare la vitalità e l'evoluzione di tale tema in età triumvirale ed augustea, verificandone la presenza e la risonanza (ovvero l'occultamento e la manipolazione) negli scritti del principe.

Per quanto concerne l'ultimo punto, si imposterà il tema dell'adozione delle modalità comunicative clientelari all'interno della dialettica leader-esercito.




Alberto Grilli (Milano), Populus in Cicerone: Thema mit Variationen

Populus ha pieno senso nella definizione del I libro del de re publica e rappresenta un'unità; ma già in quest'opera compare una più limitata concezione di populus. Del resto nella pro Sestio si parla solo di optimates, calcolando tali tutti i buoni cittadini.

Fuori di questi momenti, in cui si è di fronte alla minaccia dei 'triumviri', non compare interesse per il popolo, ma solo per gli ordines organizzati, senatori e cavalieri. Quando Cicerone alla virtus civilis rinuncia e cerca la salvezza per lo stato in futuro nella virtus socratica, che non è ideale per la massa, è logico che non creda più nel popolo.




Pierre Gros (Aix-en-Provence), Le rôle du peuple de Rome dans la définition, l'organisation et le déplacement des lieux du consensus

Les manifestations populaires ont laissé peu de traces dans la tradition historiographique, et la postulatio populi n'apparaît dans les inscriptions que dans les cas, rares, où elle a été entérinée. Pourtant la pression de la foule n'a pas été sans conséquences sur la hiérarchie des espaces et sur l'usage des édifices du centre de Rome. L'examen de la notion juridique et urbanistique de locus publicus et de ses variations au cours des siècles de l'Empire permet de suivre les modifications fonctionnelles et structurelles introduites dans les complexes monumentaux par le comportement des masses, dont le pouvoir ne peut ignorer longtemps les exigences. Le déplacement des centres de la convergence populaire depuis les fora jusqu'au Champ de Mars conduit à une réflexion sur la notion de «place» (piazza) au sens moderne du terme dans la ville romaine: les seuls espaces qui interrompent la trame dense des rues ou des îlots sont en principe strictement définis (forum, campus, saepta, péribole de santuaire, etc..). Mais une relecture des textes, de Martial à Ammien Marcellin donne à penser que le populus, ou mieux la plebs urbana, a de tout temps su annexer des secteurs entiers de la ville, soit qu'ils aient perdu leur sens et leurs fonctions initiaux (ex.: les Saepta Julia), soit qu'ils aient progressivement revêtu un intérêt particulier (ex.: le locus celeberrimus situé au pied du Septizodium).

Il est clair de toute façon que les édifices «démagogiques» qui se sont multipliés dans Rome à partir de l'époque flavienne (amphithéâtre, thermes) n'ont jamais réussi à combler les besoins des masses oisives ou laborieuses; celles-ci se sont chargées, par l'usage et l'occupation, de définir les lieux de divagation ou de rassemblement qui leur convenaient. Tenter de retrouver quelques-uns de ces lieux peut contribuer non seulement à mieux cerner l'évolution des mentalités collectives, mais aussi à comprendre les changements intervenus dans la façon de concevoir et de vivre la ville, de la part de ses principaux usagers. Ces changements contribuent à dessiner une topographie de la Rome impériale qui ne correspond pas forcément à celle qu'imposent les vestiges archéologiques.




Diego Lanza (Pavia), Il popolo sulla scena attica




Emma Luppino Manes (Chieti), Democrazia e moderatismo nel mondo greco a ridosso degli ultimi anni del V sec. a.C.

Tucidide si preoccupa per primo di capire che cosa era accaduto dopo Pericle e, nel tentativo di spiegare, ricorre ad un altro protagonista chiave, cioè Alcibiade: da Pericle ad Alcibiade (inizio e fine del conflitto del Peloponneso) poteva essere seguito il crinale dell'esperienza ateniese che si prestava così, attraverso due individui-modello, ad essere fissata in uno schema, in cui lo storiografo avrebbe cercato una più diretta rispondenza tra parole e fatti.

Nella visione di Tucidide, Alcibiade è ancora un tramite tra il passato e il presente di Atene, prima dunque del vero cambiamento: attraverso il personaggio Alcibiade, attraverso i suoi comportamenti, la sua trasgressione definita da Tucidide paranomía, che è proprio la resistenza e la difficoltà ad accettare le regole, l'indagine su questo segmento di storia ateniese diventava per lui più agevole; il grande cambiamento del tempo e dei contesti veniva, per così dire, attenuato dalla mutevolezza e dal capriccio dei protagonisti, cioè dalla loro caratterialità.

Alcibiade, nell'inverno del 414 a.C., ci offre una traccia importante della resistenza al cambiamento (Thuc. VI 89,4-6): infatti, sfidando un uditorio spartano ancora ostile, costituito solo di oligarchici doc, avrebbe avuto l'ardire, a lui del tutto congeniale, di analizzare sottilmente lo schema politico su cui si basava il sistema democratico ateniese, stabilendo con esso un anomalo rapporto di amore/odio: partendo dalla premessa che proprio quello schema aveva permesso ad Atene di essere la città più grande e più libera (en hôi schêmati megístê hê pólis etúnchane kai eleutherôtátê oûsa) e sostenendo con grande fierezza che la sua famiglia era stata guida di tale democrazia (xumparémeinen hê prostasía hêmîn toû plêthous), egli avrebbe poi tentato di definire i contorni di quello schema politico, affermando che si trattava di un sistema in cui democrazia è chiamato tutto ciò che si oppone ad un dominatore (pân dè tò enantioúmenon tôi dunasteúonti dêmos ônómastai) nel quale, perciò, l'insieme dei cittadini sarebbe stato opportunamente e responsabilmente guidato (hêmeîs dè toû xúmpantos proéstêmen) da chi si considerava, per così dire, equidistante dai poteri forti, da una parte i tiranni del passato, dall'altra i demagoghi del presente (toîs gàr turánnois aieí pote diáphoroi esmen).

Caratteristica fondamentale, dunque, ed emblematica di tale democrazia, sarebbe stata appunto la moderazione, invocando la quale, Alcibiade sosteneva che il suo gruppo si sarebbe sforzato di mostrarsi sulla scena politica più moderato di quanto non consentisse il disordine regnante (tês dè huparchoúsês akolasías epeirômetha metriôteroi es tà politikà eînai) e d'altra parte anche molto attento ad adattarsi alle situazioni presenti, senza cambiare (anánkê ên toîs paroûsin hépesthai... tò methistánai autên ouk edókei hêmîn asphalès eînai).

Lo schema politico risultante dal discorso dell'ateniese Alcibiade, che sembra scaturire quasi spontaneamente ed essere in linea con le esperienze politiche del passato, farebbe dunque riferimento ad alcuni punti fermi che costituiscono una legittimazione sempre attuale e di grande effetto soprattutto nei momenti di vuoto istituzionale. Novità e cambiamento (kainà prágmata ... metástasis), sarebbero sopravvenuti solo dopo la catastrofe in Sicilia (413 a.C.) e, all'interno di Atene, soprattutto dopo gli avvenimenti del 411 a.C., i mesi e i giorni frenetici a ridosso del colpo di stato oligarchico, caratterizzati da una profonda discussione che precedeva l'azione per abbattere, questa volta concretamente, la democrazia ... koinêi bouleusámenoi katalúsousi tòn dêmon ... (Thuc. VIII 54,4) che, già proclamata nell'Epitafio pericleo come paradigma di eccellenza (II 37-41), concludeva ora la sua storia: nel discorso di A. a Sparta, c'è, in qualche misura, la contrazione dei momenti fondamentali di questa storia e di questo processo.




Milena Minkova (Lexington, KY), Spostamento dei concetti politici nel lessico cristiano: dignitas in Boezio

Nel contesto in cui si mira a trovare i limiti della democrazia nel mondo antico, si prende in considerazione dignitas, una parola chiave che definisce la facciata esterna del potere romano e le sue norme interne. Lo scopo principale è di analizzare il concetto di dignitas in De consolatione Philosophiae di Boezio. L'uso della parola in questa opera, anche se assai frequente, appare insolito. Uno scopo ulteriore è di definire, tramite l'analisi di dignitas, dove esattamente si trova Boezio tra la sua romanità e la sua cristianità.

Nel mondo romano antico dignitas sembra di avere un significato positivo monolitico (e ciò viene confermato dall'esame di alcuni brani di Cicerone), ed anche essa sembra di funzionare sempre in un cosmo sociale e politico. Nella "Consolazione" si osserva un cambiamento delle connotazioni di dignitas verso neutralità e pure verso negatività. Appare anche nell'analisi di questa nozione una chiara separazione di forma e contenuto (i quali sono inseparabili nel pensiero romano antico; infatti la forma è il contenuto stesso) ed una tendenza di rappresentare la forma come inferiore. In questo senso, Boezio pensa più come un cristiano, che come un romano antico. Inoltre, la dignitas boeziana esiste nel cosmo universale della natura e nel cosmo morale dell'individuo. Questo anche è un tratto della mentalità cristiana. Si conclude che con il suo concetto di dignitas spostato nella sfera delle caratteristiche interne ed anche individuali, Boezio in qualche maniera apre le vie che prepareranno poi il concetto della modernità (vista in questo caso come democrazia), ed è anche un predecessore delle definizioni moderne classiche della dignità umana.




Mauro Moggi (Siena), Demos in Erodoto e in Tucidide

Il termine demos, presente ancora oggi in numerosi composti pertinenti a sfere semantiche diverse, ha alle spalle una storia lunga e interessante, che inizia con le tavolette in lineare B e prosegue con Omero, Esiodo e la poesia di epoca arcaica, per diventare poi, nel corso del V secolo, elemento basilare del vocabolario politico-istituzionale destinato ad esprimere il nuovo sistema di governo della polis realizzato ad Atene con le riforme clisteniche.

In Erodoto demos ha mantenuto implicitamente uno dei due significati originari - quello territoriale - solo quando usato per indicare i demi clistenici, ma per il resto è il secondo significato - gruppo umano, popolo - quello che ha largamente prevalso. Nuove e collegate alla realtà politico-istituzionale di Atene sono da considerare le valenze di ekklesia e di demokratia, testimoniate in qualche caso. Anche il demos che si contrappone ai pacheis (o ai gamoroi) presenta un significato particolare e per certi aspetti nuovo, in quanto indica una parte del corpo civico di una polis, una fazione connotata dal punto di vista sociale e politico, che quanto meno si oppone a un governo oligarchico e che in qualche caso ha già realizzato o aspira a realizzare un regime democratico.

In Tucidide demos ha perduto una delle valenze presenti in Erodoto (quella di ethnos) e presenta un numero più ridotto di occorrenze nell'ambito di altri significati (demo clistenico, popolo come corpo civico), mentre supera - in qualche caso in misura rilevante - le attestazioni erodotee quando assume il valore di ekklesia, di regime democratico o di fazione democratica e quando si oppone, con una connotazione di classe, agli oligarchici.

Il dato più rilevante che emerge dall'analisi compiuta è costituito dalla notevole dinamicità del linguaggio della democrazia, di cui demos rappresenta la parola cardine. Si tratta di una dinamicità che si manifesta nelle variazioni che si registrano nello spettro delle accezioni del termine, nonché nell'eclissi totale o parziale, nella progressiva specializzazione e nel forte incremento dell'uso di alcune di esse. In questo ambito, il fenomeno più degno di attenzione è da individuare nel deciso slittamento di demos verso le valenze che designano la democrazia e i partigiani della democrazia. Si tratta di uno slittamento già testimoniato da Erodoto, ma che solo in Tucidide e nella pseudosenofontea Costituzione degli Ateniesi si definisce pienamente e presenta un gran numero di occorrenze, rivelando la sua stretta connessione con la contemporanea situazione ateniese.

In conclusione, lo spettro semantico di demos e l'uso che veniva fatto di alcuni suoi significati possono fornire indicazioni interessanti sull'atteggiamento degli oligarchici ateniesi e dello stesso Tucidide nei confronti della democrazia.




Wilfried Nippel (Berlin), Die athenische Demokratie in der Amerikanischen und Französischen Revolution

Die Bezüge auf die Antike sind für beide Revolutionen in einer Vielzahl von Untersuchungen dargestellt worden. Gewiß gehörten Kenntnisse der Antike zur Bildung der Akteure, waren antike Exempla Bestandteile ihrer Rhetorik, wurden antike Namen als Pseudonyme von Autoren verwendet, etc. Hier soll jedoch gezeigt werden, daß die Bedeutung dieser Phänomene insgesamt nicht überschätzt werden sollte.

In der amerikanischen Diskussion wurde zunehmend die fundamentale Differenz zur Antike hervorgehoben. Man entwickelte das Bewußtsein, eine völlig neue Ordnung zu schaffen, für die es in der Weltgeschichte keinerlei Vorbild gegeben habe. Wenn man erstmals eine Republik auf einem großen Territorium errichtete, konnte dies nur auf der Basis eines Repräsentativsystems geschehen. Die Verfassung mußte aus einem System von "checks-and-balances" zwischen Institutionen geschehen, die sämtlich aus der verfassunggebenden Gewalt des Volkes hervorgingen. Für das Volk als ganzes wiederum gab es in der konstituierten Ordnung keinen Platz. Mit einer solchen Ordnung sah man garantiert, daß man eine Instabilität wie in der antiken Demokratie verhindern könne.

Eine Verstärkung der Antike-Bezüge hat in der Französischen Revolution vor allem in der Zeit der Jakobinerherrschaft eingesetzt. Im Vordergrund standen die Beschwörung der Bürgertugend und die Agitation gegen die Tyrannis. Der Antike-Bezug spielte zwar eine Rolle für die Pläne eines - vom spartanischen Muster inspirierten - nationalen Erziehungssystems, jedoch kaum für die Verfassungspolitik im engeren Sinne. Seit dem Sturz der Jakobinerherrschaft am 9. Thermidor 1794 wurde jedoch von der Gegenseite behauptet, die Jakobiner hätten als Spartaner des Konvents" mit ihrer terroristischen Gewaltherrschaft antike Verhältnisse der Gegenwart aufzwingen wollen. Diese Behauptung wurde dann im 19. Jahrhundert topisch.




Francisco Pina Polo (Zaragoza), Los Rostra como expresión de poder de la aristocracia romana

En unas sociedades fundamentalmente orales como lo eran todas las comunidades en la Antigüedad, el libre acceso al uso de la palabra en un ámbito público, es decir, en las asambleas populares, representaba un factor de enorme importancia a la hora de determinar el grado de participación política permitido al pueblo y su influencia en la toma de decisiones. En la Atenas de los siglos V y IV, la libertad de palabra, expresada en los términos isegoría y parresía, constituía una de las piedras angulares de su régimen democrático. El igualitario acceso a la palabra llevaba aparejado el derecho a la presentación de proyectos de ley. Obviamente, sólo una minoría de atenienses pronunciaba discursos y proponía mociones con una cierta asiduidad, pero la isegoría implicaba que el debate estaba abierto para todos, que la participación política era incentivada como derecho e incluso como deber de todo ciudadano.

En Roma, las contiones eran el único ámbito en el que estaba permitido hablar ante el pueblo, el único en el que era posible exponer las ideas propias y atacar las de los adversarios, un medio de obtener una propaganda política de efecto inmediato y de lograr popularidad, además de servir como canal de información para el conjunto de la comunidad y de medio de contacto entre senado y populus a través de los magistrados. Las contiones eran las asambleas oficiales, aunque no decisorias, dedicadas al debate político, frente a los comicios, en los que se hacía uso del sufragio, pero en los que no estaba autorizada la práctica oratoria. Pero la utilización pública de la palabra en Roma, ni formaba parte de la libertas ni era un derecho del ciudadano, un ius populi, sino que era ante todo un poder del magistrado (potestas contionandi). En las contiones, el magistrado convocante de la asamblea era el único que tenía derecho a intervenir en ella, salvo que concediera la palabra a otros asistentes, siempre según su voluntad. Los datos conocidos indican que, con contadas excepciones, los oradores ante el pueblo en Roma fueron siempre miembros de la elite, magistrados en activo o ex magistrados, por consiguiente senadores.

En consonancia con este diverso acceso al uso de la palabra, también era diferente el escenario del orador ante el pueblo. En Atenas, el orador hablaba en una posición inferior o igual a la del público asistente a la asamblea, ofrecía su palabra para persuadir a sus conciudadanos en pie de igualdad. En Roma, por el contrario, el orador se dirigía al pueblo siempre desde un lugar elevado, de manera que trataba de imponer su palabra jerárquicamente. El pueblo escuchaba a los miembros de la aristocracia desde una posición inferior. Aunque en ocasiones las contiones se celebraban en otros lugares, el lugar habitual desde el que un orador hablaba ante el pueblo en Roma eran los Rostra, la tribuna de oradores que, frente a la Curia, había separado el espacio del Comicio del Foro durante toda la época republicana. Los Rostra eran un templum, por lo tanto un lugar consagrado, hecho que simbólicamente servía para reafirmar la auctoritas de los oradores que hablaban desde ella, muchos de ellos además miembros de unos colegios sacerdotales que, como la religión cívica, eran un monopolio aristocrático. A partir de un determinado momento, la tribuna se pobló además de estatuas de personajes ilustres, convirtiéndose a su vez en símbolo de los exempla que, a lo largo de la historia de Roma, habían ido conformando el mos maiorum fundamento del Imperio: los grandes antepasados nacionales amparaban de este modo a los políticos actuales, señalando la continuidad y la eficacia de un sistema que legitimaba el poder de la aristocracia. Esa identificación de la aristocracia romana con la res publica llegaba a su máxima expresión con su apropiación de los Rostra como espacio privado de uso público en los funerales de los miembros de las grandes familias (pompa funebris), ceremonia que solemnizaba la victoria sobre la muerte a través de la perduración en la memoria colectiva, al tiempo que se festejaba el éxito de una familia, de una determinada aristocracia, de un modelo de conducta y de un sistema de gobierno.

En definitiva, el uso de la palabra en la Roma republicana, en la que existía parresía, pero no isegoría, fue siempre un privilegio de la aristocracia, y los Rostra se convirtieron en consecuencia en un símbolo de su auctoritas, en una expresión de su poder y de la estricta jerarquía social.




Leandro Polverini (Roma), Democrazia a Roma? La costituzione romana secondo Polibio

Nel VI libro delle Storie, Polibio descrive e interpreta (secondo le categorie del pensiero politico greco) la costituzione romana all'apogeo della repubblica, in particolare nella prima metà del II secolo a.C.: tale - egli dice - che «nessuno, neppure tra i Romani, avrebbe potuto dire con sicurezza se questo sistema politico fosse, nel suo complesso, aristocratico, democratico o monarchico». La sua natura di perfetta «costituzione mista» spiega, appunto, la superiorità della costituzione romana e, quindi, dello Stato romano nell'età delle grandi conquiste. È questa la risposta che Polibio dà al problema storico che ha ispirato la sua opera: come Roma abbia potuto espandere la sua egemonia su quasi tutto il mondo mediterraneo in soli 53 anni («fatto che non si trova sia mai accaduto in precedenza»).

Importante sia dal punto di vista della teoria politica, sia dal punto di vista dell'interpretazione storica dell'età dell'imperialismo, il VI libro si rivela anche più importante come documentazione singolarmente puntuale e attendibile dei poteri ripartiti, nella costituzione repubblicana al suo apogeo, fra i consoli, il senato e le assemblee popolari, e del sistema di reciproci condizionamenti e controlli che ne garantiva un'equilibrata sintesi. Per quanto in particolare riguarda i poteri diretti e indiretti del popolo, essi sono tali e tanti da rendere plausibile l'opinione di Polibio: la costituzione repubblicana non è democratica, è infatti una costituzione mista; ma, in quanto costituzione mista, è anche democratica.

Pur nella sua dipendenza da Polibio, la storiografia moderna ha generalmente ritenuto che la somma imponente dei poteri popolari da lui elencati ed illustrati riguardi piuttosto le forme costituzionali che la realtà del potere: la costituzione romana all'apogeo della repubblica è una costituzione oligarchica, strumento del predominio politico della nobilitas senatoria. Faceva eccezione una parte almeno della 'romanistica', più sensibile alla rilevanza storica degli aspetti anche formali (in senso giuridico) di un sistema costituzionale. Ma, negli ultimi vent'anni, ricerche di Claude Nicolet e Fergus Millar, di Martin Jehne ed Emilio Gabba, hanno trasferito questo punto di vista alla storiografia politica, riaprendo così il dibattito sulla rilevanza sostanziale degli aspetti democratici della costituzione repubblicana.

Democrazia a Roma? L'intervento qui sommariamente riassunto si conclude con alcune riflessioni intese quanto meno a richiamare l'attenzione sul notevole significato storico e politologico, al tempo stesso, del rinnovato dibattito storiografico e a sollecitarne la discussione.




Jean-Michel Roddaz (Bordeaux), Popularis, populisme, popularité. Remarques sur les rapports entre le peuple et le pouvoir dans la Rome antique

La thématique proposée par le colloque invite à réfléchir sur les relations entre le peuple et le pouvoir dans une perspective diachronique, ce qui implique une réflexions sur le parallèle que l'on peut établir entre l'Antiquité et des périodes plus tardives, les temps modernes ou la période contemporaine. Dans la mesure où les contextes sont différents, le risque d'anachronisme est permanent mais l'entreprise n'est pas dénuée d'intérêt quand on sait ce que notre vocabulaire politique doit à l'Antiquité et quand on se rappelle que confrontés à une situation donnée, l'homme ou la société a fortement tendance à user des mêmes types de comportement ou de réflexes. Le choix du sujet, Popularis, Populisme, Popularité traduit bien la complexité de ces relations et promet bien des difficultés dans l'analyse parce qu'il s'agit de trois termes qui n'ont jamais été utilisés dans un même contexte historique, le premier correspond à une réalité politique de la république romaine finissante, le deuxième, même s'il a des significations historiques modernes, est galvaudé dans la presse écrite contemporaine, et le troisième est aujourd'hui un mot à la mode, dont on a du mal à savoir ce qu'il recouvre exactement, mais qui a son équivalent latin, d'ailleurs peu utilisé1. Cependant, ces trois termes ont la même racine, populus, et évoquent tous, à un degré ou à un autre, la relation avec le pouvoir2. Nous avons donc choisi, pour expliciter les relations entre le peuple et le pouvoir au travers de ces trois termes, trois exemples d'hommes qui ont incarné un type de rapports à trois moments de l'histoire de la Rome antique, le denier siècle de la République, l'instauration du Principat, l'Empire enfin.

1. Le mot a d'ailleurs plusieurs signification : chez Tacite, Ann., 3, 69, il signifie effort pour plaire au peuple ou recherche de la faveur du peuple, mais Pline, Poen., 1041, l'emploie pour indiquer le lien qui unit les compatriotes et il faut le traduire chez Tertullien, Marc., 1, 10 par population.
2. Il est difficile de conceptualiser l'image de peuple et il n'entre pas dans le cadre du sujet de s'arrêter sur l'opposition que recouvriraient les deux termes antiques, le grec démos, censé représenter, dans le jargon politique moderne, la communauté souveraine, et le latin populus qui a pris avec le temps une signification péjorative et représente la foule, la populace ignorante, versatile et passionnelle.



Marta Sordi (Milano), Populus e plebs nella lotta patrizio-plebea

Il termine plebs ha in latino un significato diverso da quello di populus, che indica tutti i cittadini, patrizi e plebei: esso non indica però una massa informe ed anonima, ma un ordo, dotato di propri magistrati, di un proprio archivio, di un proprio tempio. Il concetto di concordia ordinum che indicherà più tardi l'accordo fra senatori e cavalieri, nasce originariamente dall'accordo raggiunto fra i patrizi e la plebe ed è consacrato da un nuovo culto già nel IV secolo a.C.

Questo rivela il carattere giuridico e religioso che assunse fin dall'inizio il conflitto fra patrizi e plebei, che non nacque da motivi sociali ed economici, ma fu innanzitutto una lotta per la conquista dei diritti civili e politici.

Guidata da tribuni, i cui nomi rivelano per lo più un'origine etrusca, la plebe reagì alla situazione creatasi dopo la battaglia di Cuma (seguita dall'allontanamento definitivo degli Etruschi dall'Italia meridionale e dal Lazio) ed alla serrata del patriziato: anche per questo motivo la data pisoniana del 471 varr. per la prima secessione plebea e per la creazione del tribunato appare più attendibile della data "canonica" del 493 varr., che è in realtà la data della dedicazione del tempio di Cerere, Libero e Libera, che la plebe adottò più tardi, come sede dei suoi archivi, in contrapposizione al tempio della triade capitolina.




Ramon Teja (Cantabria), Populus o plebs? La partecipazione del popolo nelle elezioni episcopali del cristianesimo primitivo (II - III secolo)

Il cristianesimo, dal suo nascere, dopo il rifiuto della maggioranza del popolo giudeo, cominciò a configurarsi come religione greco-romana. La lingua, i concetti, la mentalità e le istituzioni si adattarono molto presto a quelle imperanti nelle coeve città greche e romane. La ekklesia della polis era la riunione in assemblea dei cittadini con pieno diritto a prendere decisioni, e anche la chiesa si trasformò nella riunione dei cittadini della nuova città celeste con pieno diritto a prendere accordi e a ufficiare il culto.

Dal II secolo si generalizzò la figura del vescovo (episcopos) come autorità massima e vitalizia a capo di ogni comunità. L'istituzione dell'episcopato, plasmata sul modello delle magistrature civili, rappresentò meglio di qualsiasi altra l'integrazione della nuova religione nella società dell'epoca.

Il problema che qui ci poniamo è quale fosse il modo piú comune di elezione dei vescovi. Evidentemente il sistema di elezione si ispirò a quello dei magistrati che si era evoluto secondo luoghi e tempi. Il sistema più diffuso durante l'epoca imperiale era che il senato o le curie municipali presentassero i candidati confermati dalle acclamazioni del popolo (suffragium). Coesistevano anche altre forme di elezione come l'adlectio o la nomina diretta da parte dell'autorità senza intervento del popolo. Nelle elezioni dei vescovi si riscontravano entrambi i procedimenti benché il suffragium fosse il più diffuso fino al IV secolo. Due autori della metà del III secolo sono la nostra principale fonte di informazione sulle elezioni episcopali e il loro parallelismo con quelle civili: Cipriano di Cartagine in Occidente e Origene in Oriente. In molti passi, ma specialmente nell'ep. 67, Cipriano difende i diritti inalienabili del popolo non solo per eleggere i vescovi ma anche per deporli. Cipriano traduce la terminologia politica romana con la precisione di un giurista, giacché quella era la sua formazione: "plebs presens, publicum indicium ac testimonium, populus adsistens, ordinatio iusta et legitima, omnium suffragium et iudicium, examinatio..." Il suo criterio si riassume in questa frase in cui attribuisce al popolo potestatem vel eligendi dignos sacerdotes vel indignos recusandi (Ep. 67, 3). Origene fu, dal canto suo, l'autore cristiano che meglio approfondì il parallelismo fra le istituzioni ecclesiastiche e quelle civili. Concepisce la chiesa come organismo teocratico, riflesso spiritualizzato della società civile dell'epoca: la chiesa è governata da un senato o consiglio municipale, il prespiterium, che riproduce la boulé delle città greche contemporanee, presieduto dal vescovo.

Il diritto di elezione era per il popolo una forza potenziale che ci permette di comprendere gli episodi di corruzione, faziosità e distorsione dei processi elettorali ecclesiastici, il che spiega la sfiducia verso il sistema di alcuni pensatori cristiani come lo stesso Origene. Ma si dovette ammettere che il iudicium Dei si manifestava per mezzo del consenso popolare. Se è evidente l'importante ruolo che il popolo giocava nelle elezioni e l'enorme potere che questo gli dava, non meno importante è l'autorità che assumeva la figura del vescovo: il suffragio popolare, unito alla testimonianza del clero e al giudizio dei vescovi che consacravano il nuovo eletto attribuiva a quest'ultimo la condizione di 'ordinato' da Dio e gli conferiva potere e autorità perenni superiori a qualsiasi magistratura greco-romana e senza dover apportare una liturgia come compensazione.

Un'ultima questione che ci poniamo è chi formasse parte del populus o plebs che eleggeva i vescovi. Tutti i membri della comunitá senza distinzione di sesso, età o status? Il parallelismo con le elezioni civili ci indurrebbe a pensare che partecipavano solo gli uomini, unici portatori di pieni diritti politici. Ma le fonti non ci forniscono nessuna risposta a tale domanda. Nemmeno la terminologia: ci si serve in essa indifferentemente dei termini populus e plebs, dal momento che l'antica differenza fra di essi nel vocabolario politico romano era in buona misura sparita. Alcune narrazioni di elezioni in Eusebio di Cesarea e in altre fonti hanno un alto contenuto agiografico e mettono in rilievo l'unanimità delle assemblee popolari facendo intendere che in esse partecipava tutta la comunità. Forse una via per trovare una risposta può esserci offerta dalle informazioni sulla partecipazione del popolo nei concili. Molte fonti parlano della partecipazione in essi dei laici con formule simili a quelle usate per le elezioni episcopali: maxima pars plebis, presente stantium plebe (Cipriano) o adstantibus diaconibus et omni plebe (Concil. Elvira). Risulta difficile ammettere che in formule come omnis plebs si nascondano anche le donne come membri delle assisi conciliari, e forse lo stesso vale per le elezioni episcopali.




Alfredo Valvo (Brescia), Summa imperii ad populum Romanum pervenit. Condizioni e concezioni del potere tra III e II secolo a.C.

L'assunzione del ruolo di potenza mondiale determinò, a Roma, nuove condizioni per l'esercizio del potere. Le esigenze imposte soprattutto dalla guerra annibalica comportarono deroghe pericolose alla prassi costituzionale fino allora seguita, anche col consenso popolare. A determinare una svolta furono il potere militare, carismi personali e proroghe dell'imperium, oltre all'«entusiasmo imperialistico di massa». Nascono nuove forme di primato personale che attingono alla sfera religiosa: i culti subiscono alterazioni e si affermano nuove e incisive espressioni della religiosità personale. Alcuni generali si contendono la benevolenza degli dei, accreditandosi come loro favoriti. In gioco sono imperium e potestas con la conseguente riaffermazione delle prerogative del popolo ma si afferma il principio di auctoritas, che consentirà a Cicerone di affermare neminem esse privatum in re publica servanda e ad Augusto di giustificare la propria iniziativa personale.




Michael von Albrecht (Heidelberg), Populus: la testimonianza dei poeti augustei

Prendiamo le mosse dai giudizi letterari del popolo, ma vedremo che nell'epoca augustea questo problema è inseparabile dal tema del nostro convegno "popolo e potere".

In un poemetto laudativo diretto a Messalla (tramandatoci nel Catalepton ascritto a Virgilio, ma di autenticità dubbia) leggiamo la divisa alessandrina "non ho niente da fare con il popolo grossolano" pingui nil mihi cum populo (Catal. 9, 64); in un altro carmen della stessa raccolta (5, 4) - generalmente ritenuto genuino - si parla della scholasticorum natio madens pingui ("razza di pedanti stillante grasso". Anche Catullo (95, 10), Properzio (2, 3, 13) e Ovidio (am. 1, 15, 35) avevano adottato la formula di Callimaco, il quale caratterizzava lo stile della Lyde di Antimaco da pachús ("grasso"), contrario del leptón ("fino, raffinato") preferito dai callimachei. Il genuino Virgilio nel terzo proemio delle Georgiche, benchè non usi la parola populus, aspira a erigere un "tempio" più grande ad Augusto e a trovare un pubblico (cf. virum volitare per ora 3, 9, secondo l'epitafio di Ennio) più largo partecipando al trionfo e tronfando anch'egli. Non senza ragione queste parole s'interpretano come una promessa di scrivere un poema su Augusto, progetto questo felicemente sostituito e sorpassato dall'Eneide. Il tema del trionfo è congiunto con la partecipazione del popolo. Virgilio cioè si muove dall'esoterismo callimacheo verso una poesia che si rivolge al popolo romano.

Orazio generalmente non si fida del giudizio letterario del popolo (sat. 1, 6, 15-18); nelle Epistole (1, 19, 37; 2, 2, 103) prende le distanze dalle "recitazioni", caccia di gloria questa paragonabile al comportamento dei politici che lusingano il popolo (populus; ventosa plebs) per essere eletti. È vero che anche per Orazio il popolo talvolta può avere la ragione dalla sua parte; si pensi all' avaro che dice (sat. 1, 66 s.): « il popolo mi fischia, ma io stesso mi applaudo in casa mia». Nella Lettera ad Augusto leggiamo che il popolo, sì, è saggio e giusto nel preferire Augusto a tutti i comandanti o governanti romani e greci, ma erra gravemente nei suoi giudizi letterari (epist. 2, 1, 18-22).

Orazio, benchè di origine abbastanza umile, sprezza il giudizio del popolo, mentre Tibullo e Ovidio, sebbene cavalieri di stirpe antica, non parteggiano questo disprezzo. Properzio dichiarandosi seguace di Callimaco, sì, schernisce il popolo e i suoi giudizi morali ed estetici, ma sa anche giocare con la teoria poetologica callimachea, confrontandola con una pratica erotica tutta diversa.

Quanto a Ovidio, vale la pena di dedicargli uno studio più approfondito. Per il tema del nostro convegno "popolo e potere" è di importanza primordiale l'epilogo delle Metamorfosi (Met. 15, 877 s.):"Fin dove giunge il potere Romano sulle terre domate, verrò letto dal popolo". F. Bömer nel suo monumentale commento alle Metamorfosi non si sofferma sull'uso ovidiano della parola populus. Qui presentiamo una ricerca sistematica sulle occorrenze di populus in tutte le opere ovidiane per mettere in evidenza il significato di tre punti specifici:

  1. Legge il popolo. A differenza di Orazio e di tanti altri Ovidio si fida del popolo.
  2. Ha potere il popolo. Qui il popolo è il collettivo dei cittadini romani che formano la res publica. Ovidio insiste sull'importanza del popolo.
  3. Ha ragione il popolo. Ovidio si appoggia sul giudizio del popolo. L'epilogo delle Metamorfosi oppone il popolo alla persona del "Giove irato" (Iovis ira: modo d'esprimersi molto frequente in Latino, cf. corvi stupor, tua maiestas). Questo sarebbe - in materia di giudizio non solo letterario ma anche politico - un tipo di provocatio ad populum. Nello stesso spirito Ovidio scrive alla fine della prima elegia del libro terzo delle Tristia: "O mani della plebe, prendete le mie poesie" (sumite plebeiae carmina nostra manus).
Da questi tre punti ne risulta un quarto: l'esclusione del cittadino Ovidio è un'ingiustizia commessa contro il popolo cui fa parte il poeta. Nella sua poesia dell'esilio Ovidio ha creato - non per ultimo tramite la sua interpretazione dei ruoli del popolo - un contrappeso spirituale alla realtà triste dell'epoca tardoaugustea.