Convegno 2010: Dicere laudes. Elogio, comunicazione, creazione del consenso

Riassunti degli interventi




Luciano Canfora (Bari) – L’elogio di Atene nell’oratoria attica

La relazione verte sul carattere ambiguo di alcuni “elogi di Atene” tramandati nella superstite tradizione o sotto forma di epitafio, o nella letteratura tragica, o nella letteratura panegiristica. Attenzione particolare sarà riservata al celebre scontro oratorio Teseo-araldo nelle Supplici di Euripide, alla Costituzione degli Ateniesi come anti-epitafio, alla contestazione antitucididea nel Panegirico di Isocrate e, se ci sarà tempo, al paradossale Epitafio iperideo (papiro “Stobartiano” = P. Lit. Lond. 133 verso).



Carmine Catenacci (Chieti) – L’epica e l’encomio. Modelli mitici di età arcaica e l’epos storico ellenistico

Tra i molteplici tentativi moderni di definizione del genere epico, due elementi ricorrono con costanza: la natura narrativa, intesa come racconto ritmico ed esemplare di fatti memorabili, e il valore identitario per un popolo, un gruppo dirigente o un monarca. Il ricordo delle imprese, mitiche o storiche, lontane o più recenti, porta in sé i semi della celebrazione e della lode. La connotazione politica ed eulogistica dell’epica, che si manifesta in forme più evidenti e istituzionalizzate a partire dal IV sec. a.C., ha una protostoria lunga e diversificata nella Grecia arcaica e classica.
Lontane ascendenze sono riconoscibili già nella poesia micenea: un’epica ‘palaziale’, lirica ed eroica, celebrativa delle imprese degli antenati, ma anche del wanax vivente e delle élites guerriere. Alla fine dei secoli bui le tradizioni epiche vanno a costituire l’ossatura e il tessuto connettivo delle realtà emergenti. Referente e destinatario privilegiati dell’aedo sono la polis e, al suo interno, le famiglie aristocratiche. La distanza s’impone come tratto distintivo dell’epos. Una distanza principalmente temporale tra il mondo degli eroi e il presente, ma anche esistenziale; connaturata al racconto del mondo altro è una lingua altra. A separare e al tempo stesso collegare attualità e passato eroico intervengono strutture genealogiche, che trovano la loro forma poetica più emblematica e autorevole nel ‘catalogo’. Rappresentativo di questa produzione è Eumelo di Corinto.
Nel rapporto tra epica e potere un posto particolare è occupato da Esiodo. Oltre all’opera genealogica del Catalogo delle donne, spiccano il proemio della Teogonia e l’apologo dell’usignolo e dello sparviero nelle Opere e i giorni. Nel primo, è sancito il nesso celebrativo tra Zeus e i basileis e tra le Muse e gli aedi, ovvero tra sacro, politica e poesia, che si rivelerà la base ideologica di ogni forma di poesia encomiastica per sovrani. Il secondo introduce in maniera problematica, nel complesso rapporto tra il poeta ‘maestro di verità’ e il principe, un modulo compositivo ed espressivo che ritroveremo al centro della produzione eulogistica fuori dell’epica: l'aínos.
La vivace attività culturale e propagandistica, attorno alle corti dei tiranni tra VII e VI sec., non può non interessare un genere quale l’epica con la sua valenza pubblica e storico-identitaria. In questo quadro si segnalano l’esclusione dei canti di Omero da Sicione a opera di Clistene e, soprattutto, le notizie antiche sulla recensio pisistratide dei poemi omerici. Il potere persuasivo dell’epica è nel gioco di proiezioni a distanza tra modelli mitici e attualità.
Tra V e IV secolo si assiste a tentativi di rinnovamento del genere epico. Il nome più significativo è Cherilo di Samo, che compone il poema Persikà sulle guerre persiane, distanti solo alcuni decenni. Ulteriori passaggi decisivi sono la celebrazione in esametri delle imprese del navarca spartano Lisandro e lo sviluppo dell’epica a contenuto storico-contemporaneo alla corte dei re macedoni Filippo e soprattutto Alessandro, che fu seguito in questa prassi dai suoi successori. Viene meno la distanza temporale, aumenta quella esistenziale, anche nel segno di una convergenza tra il genere innodico e quello encomiastico. Giunge a formalizzazione l’encomio epico.



Joy Connolly (New York) – Praise and the Political Imagination in Cicero’s Pro Marcello

Despite strong arguments against this approach dating back at least twenty years, interpretations of Cicero’s pro Marcello persist in evaluating the speech in terms of intention and sincerity. Should we “believe” Cicero’s panegyric of Caesar’s clemency (Winterbottom et al.)? Or should we take the speech as an oratio figurata, a carefully styled call to take up arms against the tyrant Caesar (Dyer, Gagliardi et al.)? This paper seeks to shut the door decisively on the bipolar approach in favor of exploring what the text teaches us about the complex role of praise in shaping the political imagination at moments of massive systematic stress.
Concentrating on six prominent elements in the speech – the high frequency of negatives and statements of incapacity, the recurrence of dolor as a theme, the assimilation of characters to one another, references to physical senses of sight and hearing, and most importantly, hyperbole – I argue that the speech articulates an ironic vision of emergency government where the painful shock of senatorial defeat must be transformed into the extended pain of future-oriented, knowingly compromised action. Cicero’s insistence on his inability to praise Caesar and on the failure of his choices in the past, his replay of the scene of defeat, and his criticism of Pompeian violence all exhort his listeners against trying to achieve sovereign agency at disastrous cost – the purified stance adopted by Cato. His hyperbolic praise of Caesar’s surprising clemency (so excessive that F. A. Wolf categorically rejected Ciceronian authorship) suggests that the Caesarian moment will feature a politics that exchanges familiar paths of violence for a paradoxically secure state of unpredictability. As he chides Mark Antony two years later, Caesare dominante veniebamus in senatum, si non libere, at tamen tuto (“Under the rule of Caesar, we came into the senate not as free men, but safe, at least,” Phil. 13.18).
It is crucially important to understand oratorical figures like meiosis and hyperbole, I conclude, because through their shock value, these figures unlock powerful imaginative energies in their listeners and readers. Such energy can be directed toward imagining peaceful, painful ways forward through an uncertain future, as the pro Marcello advocates, or it can cultivate dangerous fantasies of vengeance and victimization, as we currently see in the rhetoric of the American right.



Franca Ela Consolino (L’Aquila) – Sapere è potere: panegiristi e creazione del consenso nell’occidente latino

La relazione verterà sul modo in cui le informazioni di cui egli dispone e l’eventuale coinvolgimento del panegirista possano influenzare la comunicazione e le strategie di creazione del consenso. Verranno esaminati due casi tardo imperiali e due d’età romano barbarica.
Per il tardo impero saranno oggetto di analisi due panegirici di Claudiano e due di Sidonio Apollinare, che entrambi in uno dei due loro carmi presi in esame parlano ad un uditorio meno informato o consapevole di loro.
Per Claudiano si metteranno in luce le differenze di trattamento che intercorrono fra il panegirico a carattere esclusivamente encomiastico che celebra il consolato di Probino e Olibrio e quello in tre libri per il consolato di Stilicone, volto a creare consenso. Per Sidonio Apollinare il panegirico per il suocero Avito, teso a convincere il senato di Roma verrà messo a confronto con quello meramente laudativo per Antemio, perfettamente estraneo e poco noto al poeta.
Per l’età romanobarbarica si esamineranno due casi in cui il panegirista riesce ad orientare la comunicazione in modo da promuovere al massimo il personaggio elogiato.
Il panegirico di Cassiodoro per Amalasunta, attraverso una accorta combinazione di enfasi e reticenze, ne traccia a beneficio del senato di Roma un ritratto che ne celebra i successi, e - poco prima dell’ormai prevedibile decesso di Atalarico - la mostra decisamente capax imperii. Il panegirico di Venanzio Fortunato per Chilperico (diversamente da quelli meramente laudativi per i re Sigeberto e Cariberto) delinea un’immagine della coppia regale che, ignorando le accuse di infedeltà della regina, di fatto le smentisce, e rende così possibile il superamento delle tensioni fra i sovrani e una parte significativa della chiesa merovingia.



Philip Hardie (Cambridge) – Strategies of praise in Renaissance epic

Praise is a defining feature of the genre of epic, but recent criticism of the ancient epic has tended to downplay or deny the laudatory function of poetic narratives on the deeds of heroes. In the case of the Aeneid many modern readers have been more ready to detect criticism or blame, than praise, of Aeneas and Augustus. This paper begins by surveying the dominant medieval and Renaissance tradition that links epic to the epideictic rhetoric of praise and blame, and which stresses the ethical and didactic role of epic. This has implications both for the reading of Virgil and Homer, and for the production of new epics. A good example of both is Maffeo Vegio’s thirteenth book of the Aeneid, which completes Virgil’s twelve-book poem with a book of pageant and panegyric. The second part of the paper examines the reception of what is, in formal terms at least, one of the most overtly panegyrical parts of the Aeneid, the Parade of Heroes in book 6. Reconsideration of recent criticism that locates doubt and qualification at the heart of Anchises’ revelation to his son of the glorious future history of Rome is followed by a survey of some of the many reworkings of the Parade in Renaissance epic. An exploration of the ways in which these imitations perform a panegyrical and exemplary function will lay particular emphasis on the aspects of consensus and division. How does a historical procession call on its various audiences for solidarity with national or dynastic goals in the face of the repeated threats of leaders who exemplify vices rather than virtues, and of dissension and civil strife?



Richard Hunter (Cambridge) – Festivals, cults and the construction of consensus in Hellenistic poetry

This paper addresses some of the ways in which Hellenistic poets appealed to the shared interests of their audience and patrons and hence helped also to shape those interests. My concern will be first with the representation of festivals and public cult and how this differs in Hellenistic poetry from (in particular) the archaic period. Secondly, I will turn from the representation of cult to narratives of their foundation, to explore how foundation stories are shaped to meet contemporary needs and why such stories did actually matter in the religious and political world. My two cases studies will be Callimachus’ account in the Hymn to Artemis of the worship of Dictynna on Crete and the various cults of Iambus 10.



Eugenio La Rocca (Roma) – Ottaviano / Augusto dio presente

L’opera di normalizzazione politica e sociale posta in atto da Ottaviano a partire dal 36 a.C., dopo la vittoria su Sesto Pompeo a Naulochos, e parzialmente conclusa nel 27 a.C., quando gli fu conferito il cognomen Augustus, è stata ottenuta con una delle più sapienti opere di comunicazione, sia verbale e letteraria sia figurativa, mai effettuate nel mondo antico per capillarità ed eccezionalità di risultati. Ottaviano aveva imposto all’intera ecumene, e non alla sola Roma, un sistema stabile con la forza delle armi e, in seguito, aveva tentato di assicurare un consenso generale al suo operato, in apparenza spontaneo, da parte di tutte le popolazioni dell’impero, in base alla sua auctoritas. Come ricordano sia Nicola di Damasco sia Filone di Alessandria, per queste sue benemerenze, egli fu venerato un po’ dovunque al pari di un dio con templi e sacrifici. Prendeva così avvio quel processo di identificazione simbolica del principe con lo stato romano.
Partendo dal testo di Nicola di Damasco, cronologicamente tra i primi a celebrare Augusto secondo lo schema del panegirico, mi occuperò in questa sede di quelle forme di comunicazione visiva che preludono alla futura apoteosi del principe, già ampiamente preventivata nel decennio anteriore ad Azio, sebbene non secondo un progetto ideologico coerente, e senza che risultassero chiari i modi di attuazione e le possibili ricadute dinastiche. È infatti inverosimile che un uomo di stato del livello di Ottaviano non si fosse posto immediatamente, al momento stesso in cui giungeva ai massimi vertici dello stato, il problema della trasmissione del potere ai suoi discendenti, con un aggiornamento degli schemi mentali già adottati dai sovrani greci, e parzialmente ereditati da Giulio Cesare.
Il quadro di riferimento entro cui si muovono Nicola e, qualche decennio dopo, Filone, è prettamente greco, e greci sono i motivi retorici che rendono un sovrano degno di essere venerato. Egli è benefattore dell’umanità, soccorritore in occasione di gravi calamità, e porta con sé la libertà e la pace. Si tratti di liberazione da gravi pericoli, come una guerra imminente o in corso, o atti di mecenatismo di altissimo livello, o meglio la fondazione (o la ri-fondazione) di città, il risultato è che sono riconosciuti i meriti del benefattore che lo rendono superiore agli altri uomini facendolo simile agli dei, e gli si offrono in compenso onori divini.
Ma una cosa è la consacrazione “ufficiale” di un mortale, altra il comune sentire degli uomini che tendono a credere nell’essenza superumana di coloro che li beneficano hic et nunc: e poco importa se la convinzione poggi o meno su basi sicure e accettate da tutti. Fin dalle prime forme attestate, il culto di mortali si presenta come un’espressione spontanea di gratitudine per i favori ricevuti. Secondo un inno dedicato a Demetrio Poliorcete di ritorno ad Atene da un viaggio a Leucade ed a Corcira, il principe appare agli Ateniesi desiderosi di ricevere un salvatore, come un dio vivente e presente in carne ed ossa, mentre gli dei olimpici sono lontani o non ascoltano.
In un decreto di Alicarnasso, Augusto è celebrato secondo termini analoghi a quelli dei sovrani greci: “Terra e mare hanno pace, le città fioriscono per il giusto ordinamento, per la concordia e per l’agiatezza, in tutte le proprietà domina l’abbondanza, c’è buona speranza per il futuro, nel presente buon animo”.
A Roma e in ambiente italico non sono differenti le regole per le quali Augusto tende a diventare emissario degli dei o lui stesso dio vivente in terra. Tuttavia, mentre nella produzione figurativa greca a carattere pubblico e ufficiale non sono limitati i casi in cui l’imperatore è rappresentato come un dio, nella produzione figurativa romana a carattere statale – si tratti di monete o di sculture a rilievo e a tutto tondo destinate appunto ad una fruizione pubblica – nessun uomo politico oserà autorappresentarsi in maniera arrogante nelle fattezze di un dio. È praticamernte la differenza che si riscontra tra l’immagine di Augusto che riporta la pace per terra e sul mare come su uno dei rilievi del Sebasteion di Afrodisia, e l’immagine trasmessa sui rilievi dell’Ara Pacis. Al contrario, la produzione figurativa, anche urbana, a carattere privato – e per privato si intendono in primo luogo quegli oggetti di qualità eccezionale che, come le gemme e i cammei, sono produzione di corte, ma destinata ad una fruizione limitata – ha offerto invece maggior spazio ad un’immagine ambigua del principe, esaltandone le qualità sovraumane, come avviene nella rappresentazione olimpica dei principi giulio-claudii sulla Gemma Augustea di Vienna.



Nino Luraghi (Princeton) – In praise of Hieron, or the masks of the tyrant

It would be disingenuous to say that praising a Greek tyrant was a hard task. Across history, praise has been heaped upon autocrats of all sorts by all sorts of people. And yet, epinician poets writing to celebrate the victories of tyrants in athletic competitions were faced by a fundamental problem. The tyrant was not just any wealthy and successful Greek aristocrat. Therefore, in applying to him the rhetoric of praise commonly used in victory songs the poet risked offering an inadequate representation of his true power. On the other hand, in Greek public discourse in general, and in aristocratic ideology in particular, tyranny was a taboo: nobody could be praised for being a tyrant.
This was the dilemma that faced Pindar and Bacchylides, and of course their patrons. They dealt with it in different ways. While the tyrant Theron of Akragas was praised by Pindar as generous, wealthy, wise, brave – in a word, as any other victorious athlete, Hieron of Syracuse had a more creative approach. His superior power is inscribed in the celebration of his agonistic victories in a way that is at the same time oblique and unmistakable. A surprisingly diverse array of rulers, taken from history and myth, appear in the odes for Hieron as paradigms, or more accurately, as masks, that allow the poet to conjure in the mind of the audience the image of Hieron’s monarchic power without attracting attention on the way in which such power was commonly construed in Greek political discourse, i.e. as a monstrosity. Pindar’s odes for Hieron thereby represent a fascinating and – as far as Greek culture is concerned – unique example of how to praise a tyrant in the framework of a political ideology that lacked a positive concept of monarchy.



Glenn W. Most (Pisa) – Power and its Perils in Archaic Greek Lyric Poetry

How much truth does the tyrant want to hear? How much truth can the tyrant wish to seem to want to hear? We expect, and the ancient Greeks expected, the anxieties of the tyrant and the instability of his power to induce him inevitably to allow those he permitted to surround him to tell him only what he wanted to hear. Doubtless this was often the case. And yet truth usually remained a value honored in appearance if not always in reality; and a variety of circumstantial reasons – the tyrant’s personality, a shrewd political calculation, his relations to his subjects, to potential threats, and to other tyrants – could also sometimes favor not only the appearance of frankness in panegyrics but also the inclusion in them of at least some degree of genuine criticism and admonition. But the speaker of praise for the tyrant who wished to exploit the space, however narrow, thereby opened up to his apparent plain speaking, had to negotiate a tricky and risky middle ground between seeming servile and seeming presumptuous if he wished to achieve success in the eyes of men and of gods. For at least some poets, this challenge may itself have been very attractive indeed and may have made the financial allures involved in such an undertaking even more appealing than they would already have been on their own account. I examine in this light especially victory odes composed by Pindar and Bacchylides for Sicilian tyrants; but I shall also consider poetry by Simonides and prose texts by at least Herodotus and Xenophon, and shall inevitably invoke Castiglione’s Courtier.



Damien Nelis (Genève) – Praising Nero

A precedent for the belief that Elvis Presley is alive and well and living in Peru may be found in the story recounted by Tacitus (Histories 2. 8-9) that in March 69 BCE Nero was alive and well and living in Cythnus. Obviously, one could love or hate Nero, but one could not ignore him. And as Edward Champlin has shown in his recent biography, he remains an endlessly fascinating figure. He is described by Champlin (p. 236) both as ‘a man of considerable talent, great ingenuity, and boundless energy’ and as ‘a public relations man ahead of his time’. Obviously, this is not quite the image most readers get from reading our main sources, Cassius Dio, Suetonius and Tacitus. How then does one deal with the problem of reacting to praise of a bad, mad emperor? In an article devoted to a much-discussed passage of Lucan (1.33-66), Michael Dewar (CQ 44 (1994) 199-211) used the expression ‘laying it on with a trowel’ in order to try to get to grips with the fact that modern readers simply do not like praise poetry and therefore fail to understand it and the conventions which surrounded its production and reception. In this paper I will attempt to survey some reactions to Dewar’s paper in recent work on Lucan in order to illustrate the various ways in which scholars deal with the issues arising from his reading. It will also be argued that appreciation of a pattern of allusion to Vergil is central to the understanding of the passage in question and that Lucan’s praise of Nero is inextricably bound up with Vergil praising ‘Caesar’ in the first book of the Georgics.



Robin Osborne (Cambridge) – Is there Panegyric in Classical Greek Art?

As ancient rhetorical theorists recognised, there are certain techniques that are central to the act of praising. Above all praise depends upon selection and upon putting qualities and actions into a particular context in which their positive qualities emerge clearly.
Selection is a central and well-known feature of classical Greek art. The idealism of classical sculpture depends precisely upon omitting or at least under-emphasising traits that are regarded as less commendable. Classical Greek art offers a description of the world that is as shaped by its omissions as are the portraits offered by panegyrics.
Some scholars have suggested that we can indeed read monuments of classical Greek art, and above all the Parthenon frieze, as panegyrics, as monuments that praise Athens and praise Athenian democracy. It is certainly the case that the Parthenon frieze and other Athenian monuments present a highly selective picture of Athens and of Athenians, and that that picture does not put emphasis on any Athenian qualities that might be regarded as negative. But is selective description enough? Is there anything about these sculptures that makes us see them as anything other than (selective) description?
In this paper I explore the conditions for panegyric and the conditions of classical Greek art, and focus attention particularly on the issue of context and the recognition of description as redescription. Were visual artists able to enjoy the same sorts of generic expectations established by context that e.g. those who delivered Funeral Orations at Athens enjoyed? I argue that the limited extent to which the context of viewing of classical sculpture is controlled seriously undermines the possibility of panegyric in classical Greek art.



Sabino Perea Yébenes (Murcia) – Nicolás de Damasco, un intelectual singular en la corte de Augusto

Nicolás de Damasco, contemporáneo de Augusto, es un gran intelectual de su época. Dedicó parte de su vida a la labor diplomática, como embajador del rey judío Agripa en Roma. Su obra escrita, en griego, sin embargo, no es reflejo su experiencia personal como “político profesional” sino que es una aventura intelectual que podríamos calificar de “multicultural”, y muy innovadora en su época. Por desgracia, toda ella nos ha llegado fragmentada.
Al evaluar la figura de Nicolás de Damasco generalmente se ha puesto el acento en su “filorromanismo” por haberse mostrado abiertamente como “filo-augusteo”. Esto se percibe con claridad cuando leemos la Bíos Kaísaros (Vida del joven César, o Vida de Augusto, como solemos traducir). Este panegírico es, en todo caso, sólo una parte de su producción, sólo una parte de su personalidad.
En este trabajo pretendemos “re-ubicar” y reivindicar la figura de Nicolás como intelectual “al margen” del poder político, trayendo a primer plano su obra histórica principal, su Historia Universal, de cuyos 144 libros quedan restos (que no han sido traducidos a lengua moderna), y de sus comentarios a las obras de Aristóteles.
Una evaluación global de la obra de Nicolás de Damasco mejorará su imagen actual – que, como indico, le presenta apenas como un “lacayo del régimen de Augusto” – , hasta situarlo, o tener que situarlo, precisamente, “fuera del círculo de intelectuales augusteos”, no sabemos si por voluntad del príncipe o porque su obra –más anclada en el pasado que en la bullente actualidad de la política romana – no era precisamente un instrumento de gran utilidad para el régimen del principado tal como se configuró a partir del año 27 a.C.
En todo caso, merece la pena traer a primer plano la labor intelectual de este hombre, que en su tiempo (ca. 64/63 a.C. - 4/5 d.C.) prácticamente inauguró géneros literarios tan interesantes como el panegírico biográfico-político y la historia universal determinista (cuyo sentido y colofón era el Principado augusteo), por no hablar de la importancia que tuvieron sus escritos para transmitir la obra aristotélica, así como el mérito intrínseco y la singularidad de “ser aristótelico” en la Roma de finales del siglo I a.C.



Laurent Pernot (Strasbourg) – La retorica della seconda sofistica e il potere politico

Gli oratori greci della Seconda Sofistica hanno composto e pronunciato numerosi elogi in onore di Roma e dei Romani, nel periodo che va dal I al III secolo d.C. Dopo essere stati, un tempo, considerati vuoti, formali, adulatori, questi elogi sono divenuti oggetto di una rivalutazione ed è stato loro riconosciuto, a giusto titolo, un messaggio politico che esprime il legalismo della Seconda Sofistica verso Roma. Tuttavia, tale constatazione non esaurisce l’argomento. L’elogio retorico era uno strumento raffinato, codificato, volto ad esprimere l’approvazione, certo, ma anche a far passare messaggi velati, a presentare richieste, a negoziare, se non a criticare.
I. – L’elogio retorico propone dei modelli, facendo riferimento alle griglie di eccellenza costituite dalle liste dei “luoghi” (topoi). La sua vocazione consiste nel rafforzare l’adesione del pubblico a valori ammessi e riconosciuti, nel riaffermare e ricreare costantemente il consensusintorno ai valori dominanti: per quanto concerne i rapporti con Roma, i valori d’ordine politico, economico e religioso.
II. – Oltre questa funzione consensuale, i discorsi dei sofisti erano portatori di messaggi impliciti e di sottintesi. In questo caso, l’interpretazione si appoggia sulla nozione di “discorso figurato” (eskhêmatismenos logos), che, in retorica, designa i discorsi dal doppio fine e dalla falsa apparenza.
(1) L’elogio poteva servire ad appoggiare una richiesta, esplicita o implicita (esempi in Menandro Retore).
(2) Esso poteva porre condizioni (esempio del discorso di Elio Aristide In onore di Roma). I discorsi dei sofisti, scritti in greco, da Greci, in nome di interessi greci, proponevano una lettura fiera ed interessata della realtà dell’Impero; essi definivano i termini dell’adesione ellenica alla dominazione romana.
(3) L’elogio poteva contenere ammonimenti e rimproveri velati (esempio del terzo discorso Sulla regalità di Dione di Prusa), così come riflessioni disincantate (esempio del discorso Panatenaico di Elio Aristide).
Sulla questione del rapporto tra le élites ellenofone e l’autorità romana, una questione delicata, la retorica epidittica ha fornito forme d’espressione ovattate e discorsi che la davano a bere, in cui attese, condizioni e incrinature si esprimevano dietro l’apparenza dell’approvazione più entusiasta.



Giusto Picone (Palermo) – Beneficium e gratia. Il de clementia di Seneca tra parenesi e modelli etici

La clementia Caesaris teorizzata nel De clementia senecano può essere utilmente studiata alla luce della prassi della relazione donante che nella società e nella cultura romana lega benefattore e beneficato. Infatti, già nella sezione prologica del trattato (1,1) il sovrano assume i tratti del dans, mentre l’intera comunità dei sudditi riveste il ruolo dell’accipiens, beneficiario del dono della clementia che viene erogato; in quest’ottica la laus principis costituisce la controprestazione dovuta, nella quale si manifesta il referre gratiam del donatario. Va individuata qui la radice prima della natura condizionante dell’elogio: esso non solo definisce il ritratto dell’optimus princeps esercitando un’evidente funzione parenetica, ma subordina la laus al rispetto del modello eticizzato e idealizzato di sovrano che viene attribuito a chi esercita il potere monarchico. Su questo versante un precedente di grande rilievo è costituito dalla prima ecloga virgiliana, in cui Titiro collega l’impossibilità che il volto del giovane deus si cancelli dal suo cuore al mantenimento dell’ordine cosmico che questi assicura e che per il pastore-poeta coincide con la certezza che il suo spazio e il suo tempo non conosceranno mutamento alcuno.
Nella strategia argomentativa senecana gioca un ruolo importante l’affermazione incipitaria (1,1,1) con la quale l’autore del trattato motiva la propria decisione di scribere de clementia con l’intento di fungere da speculum principis destinato a ostendere a Nerone la sua stessa natura; per questa via all’esortazione si sostituisce la descrizione dei comportamenti presenti e futuri del sovrano, sicché diviene decisivo il fatto che questi non sia mai colto da una subita oblivio sui (1,1,7). Finalità precipua del trattato è dunque non solo quella di delineare compiutamente l’identità etico-politica del principe, che ruota attorno alla riformulazione della clementia quale virtù stoica per eccellenza, ma anche di garantirne la memoria nel destinatario dell’opera. Si spiega in questo modo il vasto impiego di exempla e di similitudini che caratterizzano l’intero libro I e che vanno letti nell’ottica assmanniana delle “figure di ricordo”, immagini di personaggi storici o di animali esemplari che consentano alle idee di farsi oggetti sensibili per potersi fissare nella memoria individuale del princeps e in quella collettiva del populus Romanus, divenendo così memoria culturale condivisa.
Struttura portante della trattazione, come di consueto nella scrittura senecana, è l’antitesi, che qui oppone polarmente bene e male, re clemente e tiranno crudele. L’elogio condizionato passa dunque attraverso il confronto, che si realizza mediante l’insistita riproposizione di ritratti antagonistici e l’individuazione della comparatio quale strumento privilegiato della laus: come ben dirà Plinio nel suo Panegirico (53,1), nihil non parum grate sine comparatione laudatur. Nel de clementia il tema viene posto già nel capitolo prologico (1,1,6) con l’evocazione, a fronte del giovane Nerone, del divus Augustus e dei prima tempora di Tiberio e, non casualmente, viene collegato al motivo della bonitas naturalis e della persona: il rapporto tra realtà e finzione costituisce infatti uno degli snodi essenziali della riflessione di Seneca in tutta la sua produzione letteraria.



Gianpiero Rosati (Udine) – L’amore per il tiranno. Creazione del consenso e linguaggio encomiastico nella cultura flavia

La tradizionale lettura della poesia flavia, in cui la componente encomiastica è così spiccata, come propaganda promossa da Domiziano (ed espressione di servile acquiescenza da parte dei letterati) non rende conto della complessità del rapporto che Marziale e Stazio, i due principali poeti attivi sotto quel regime, instaurano col potere politico. Anziché essere il prodotto di un’operazione organizzata dall’alto, la loro va vista piuttosto come un’iniziativa autonoma, che contiene una proposta di politica culturale offerta al regime flavio in cambio di un nuovo mecenatismo. La proposta si fonda sull’etica della reciprocità, che procura un beneficium al poeta e gli riconosce un ruolo importante di strumento al servizio della collettività.
Attraverso i propri strumenti professionali (di cui, in questo implicito negoziato col principe, rivendicano il prestigio e l’esclusiva), i due poeti si propongono quali ‘interpreti autorizzati’ dei valori dominanti, preziosi mediatori tra il potere e il popolo, al quale sono in grado di offrire un’immagine idealizzata del sovrano, così come dell’élite che lo circonda e della realtà quotidiana. La mitizzazione/estetizzazione della società imperiale, presentata come una nuova età dell’oro e ‘il migliore dei mondi possibili’, funge da celebrazione del potere dominante e da strumento di creazione del consenso.
Quello flavio viene presentato come un mondo governato da armonia e amore: l’appello al linguaggio delle emozioni, dell’amore reciproco tra il sovrano e i suoi sudditi, rivela la difficoltà di sottrarsi al marchio di doppiezza e adulazione che compromette la credibilità del genere encomiastico nelle sue varie espressioni. Quanto più si appella al principio dell’amore, tanto più questa retorica degli affetti (costruita sul linguaggio dell’amicitia tra uguali nella società repubblicana) tradisce l’incolmabile distanza che separa ormai il principe dai cittadini.

Gilles Sauron (Paris) – La propagande de Pompée: conception, diffusion et réception

La propagande qui a entouré la longue carrière du Grand Pompée est connue par divers textes qui célèbrent autant les qualités proclamées du personnage, comme sa «probité» (probitas) ou sa «chance» (felicitas), que ses ambitions de pacificateur et de conquérant. Exprimée sur le mode épique, comme lors du concours de Mytilène organisé par son ami Théophane, cette propagande n’hésitait pas à comparer Pompée à Alexandre, voire à Hercule ou Dionysos. Pompée a célébré lui-même son envergure militaire et politique exceptionnelle en construisant au centre du Champ de Mars un ensemble monumental grandiose, dominé par le sanctuaire de Vénus Victorieuse. Il est difficile de mesurer le succès de cette entreprise de célébration, qui s’adressait à des publics très différents, à l’intérieur comme à l’extérieur de Rome. Mais il est remarquable que l’on rencontre, dans l’intimité d’une villa vésuvienne, aujourd’hui située à Torre Annunziata et qui dut appartenir originellement à un ami politique de Pompée, des échos précis de la propagande orchestrée autour de ce dernier.



Francesco Stella (Siena - Arezzo) – La dinamica del consenso nelle lodi imperiali dei poeti carolingi e post-carolingi

Le dinamiche di produzione del consenso e propaganda politica nella letteratura mediolatina trovano nel periodo carolingio uno dei momenti di maggiore intensificazione e più innovativa sperimentazione di forme, che rielaborano elementi della tradizione classica e tardo-antica, in condizioni sociopolitiche profondamente diverse rispetto al modello romano, intorno a uno dei centri di potere più intensamente attivi della storia europea. Dinanzi a sollecitazioni dell’autorità politica orientate piuttosto verso interessi grammaticali, scientifici o teologici, gli automatismi culturali e le aspettative di promozione sociale spingono il gruppo intellettuale vicino all’imperatore a replicare invece comportamenti encomiastici tramandati dalla letteratura precedente, interpretando in senso panegiristico l’elaborazione poetica di generi come la bucolica o l’epica, ma soprattutto colorando di preoccupazioni politiche generi più distanti dal rapporto col potere come la meditazione teologica o la visione dell’aldilà o la lirica individuale o le acclamazioni liturgiche, in forte analogia con processi riscontrati nell'età augustea. In questa prospettiva si traccia un quadro della produzione poetica carolingia impegnata in relazioni con l’impero, con particolare attenzione alle celebrazioni dell’Hibernicus Exul e di Paolino d’Aquileia, al Karolus magnus et Leo papa, agli Annales de gestis Caroli Magni del Poeta Sassone, al poema di Ermoldo Nigello su Ludovico il Pio. Il panorama viene esteso al maggiore epos di età tardo-carolingia, intitolato espressamente Panegirico nel manoscritto che lo tramanda, cioè i Gesta Berengarii che tentano di mitizzare il re d’Italia, e per breve tempo imperatore, Berengario I, di stirpe carolingia, sulle cui imprese il testo in questione si trova ad essere insieme documento storico spesso unico e rielaborazione celebrativa, accompagnata da un apparato di autoglosse di grande interesse storico-culturale. Base di confronto per l’analisi di questa fenomenologia letteraria sono le indagini sociostrutturali del genere panegirico e delle sue trasformazioni poetiche tardo-antiche proposte negli ultimi decenni, fra gli altri, da Cameron, Hofmann e Schindler, di cui si sperimenta l’applicazione al periodo medievale in dialogo con la fitta bibliografia sull’epoca carolingia, più attenta alla delineazione di un rapporto di committenza indiretta dell’imperatore.



Ignazio Tantillo (Cassino) – Panegirici e altri ‘elogi’ nelle città dell’impero tardoantico

La tarda antichità è stata definita un ‘age of ceremony’. In una società caratterizzata dall’accentuarsi delle disparità economiche e sociali, rigidamente gerarchizzata, pervasa da un’ideale carismatico del potere, la comunicazione tra individui e gruppi è codificata attraverso pratiche e rituali in cui gioca un ruolo determinante il principio dell’amplificazione (qui inteso in senso ampio, non ‘tecnico’). Teatro di queste pratiche celebrative erano soprattutto gli spazi pubblici delle città, e in particolare alcune di esse: le sedi imperiali, i capoluoghi di provincia, e solo occasionalmente e comunque in misura decisamente minore altri centri. Tra tali pratiche celebrative, i discorsi di elogio (i ‘panegirici’), composizioni di vario genere indirizzati a varie categorie di individui, costituiscono senza dubbio alcune delle forme più elaborate. Simili discorsi erano prodotti in gran quantità per una moltitudine di occorrenze. Su di essi disponiamo di testimonianze distribuite in modo non uniforme: la trattatistica greca è ampiamente sviluppata, al contrario di quella latina; ci sono giunti un discreto numero di panegirici imperiali, dall’Occidente come dall’Oriente, in prosa e in versi; non mancano notizie sui panegirici di funzionari (che dovevano costituire il grosso della produzione), ma tali informazioni sono assai più numerose per la parte orientale che per quella occidentale. Se non v’è dubbio che il discorso d’elogio era un elemento caratterizzante della vita politica delle città, molti rimangono i punti da chiarire (per esempio, dobbiamo davvero immaginare, nelle province d’occidente, una vita politica senza la retorica dell’elogio?). A tal fine può esser utile indagare la retorica dell’elogio non solo nel suo rapporto con la tradizione del genere, ma anche in quello con altre modalità di rappresentazione del potere. Meglio documentata, in particolare, è un’altra forma di celebrazione di imperatori e funzionari, pure fondata sull’amplificazione: quella costituita dalle iscrizioni che corredano i monumenti onorari eretti per omaggiarli. Anche l’epigrafia onoraria è un ‘genere’. Ha una sua tradizione e un suo repertorio (stilistico, linguistico) canonizzatisi nel periodo ellenistico-romano. Tuttavia l’epigrafia tarda è per molti aspetti diversa da quella del periodo precedente: a partire dal III sec. d.C., in effetti, il linguaggio delle iscrizioni cambia, si diversifica e in esse sempre maggior spazio è consacrato a quelle che talora vengono definite le “titolature non ufficiali” degli imperatori, o gli “elogi delle virtù” dei funzionari. Il processo di trasformazione, che possiamo ritenere compiuto nell’età di Diocleziano, porta a esiti diversi nella parte orientale e in quella occidentale: ma in entrambe l’elemento di novità è costituito proprio dall’irrompere di elementi tratti da altri generi nello spazio epigrafico. In che misura e attraverso quali canali il linguaggio dell’epigrafia onoraria interagisce con quello di altre forme di celebrazione, in particolare con i panegirici? E soprattutto, in che modo lo studio di queste testimonianze ‘minori’ può esser utile a chiarire la genesi e il ruolo del discorso di elogio? Il confronto deve sempre esser condotto con estrema cautela e nella consapevolezza dell’irriducibile diversità di queste categorie di testi; nondimeno, si ritiene che in alcuni casi sia possibile metter a confronto con profitto iscrizioni onorarie e panegirici. A tal fine, sono prese in esame due epigrafi dell’epoca di Giuliano (una fase che appare caratterizzata, soprattutto per l’entusiasmo suscitato in taluni ambienti dall’avvento del nuovo principe, da un’epigrafia particolarmente originale). La prima, da Ancyra, è conosciuta da tempo ma scarsamente studiata (CIL III 247=ILS 754), la seconda, da Samo, è stata invece pubblicata di recente (IG XII 6, 1, 427). In entrambi i testi si possono rilevare delle rielaborazioni originali di temi, riguardanti la figura del principe e la glorificazione del suo operato, che erano stati senza dubbio sviluppati o trattati in un contesto più ‘alto’. Ciò induce a interrogarsi sui canali attraverso i quali tali temi circolavano, su quale eco potesse avere, a sua volta, la loro trasposizione epigrafica, sull’applicabilità del concetto di propaganda alle forme della celebrazione nel mondo tardoantico.



Gregor Weber (Augsburg) – Den König loben? Positionen und Aufgaben der Dichter an den hellenistischen Königshöfen

Ausgehend von einer Passage im 1. Mimiambos des Herodas von Kos (Vv. 26-33), in der beiläufig die Vorzüge und Errungenschaften der ptolemäischen Herrschaft über Ägypten (u.a. das Museion) erwähnt werden, zeigt der Vortrag die Schwierigkeiten auf, die für eine sachgemäße historische Kontextualisierung der Dichter und ihrer Werke, die einen Bezug zum König und seiner Dynastie aufweisen, bestehen. Gravierend ist vor allem unser Informationsdefizit, was die konkreten Usancen und Abläufe im Literaturbetrieb an den Königshöfen angeht, und zwar besonders für die Frage, welche Funktionen der Dichtung im Spannungsfeld zwischen königlichen Erwartungen und dichterischen Möglichkeiten zukamen.
Zur Beantwortung dieser Frage werden (1.) einige für die Thematik zentrale Begriffe – 'Hof','Patronage','Dichter' und'Propaganda'– definiert. Dann wird (2.) zu klären versucht, welche Positionen im Sinne von Tätigkeiten den Dichtern an den Höfen zukamen, und, welche Positionen im Sinne von Einstellungen sie König und Hof entgegen brachten. Von Interesse ist (3.), ob die Dichter spezifische Aufgabenfelder übernehmen mussten oder freiwillig übernommen haben und welche Themen hier im Kontext von König, Dynastie und Hof behandelt wurden.
Dabei wird deutlich, dass man sowohl mit Intellektuellen zu rechnen hat, die neben ihrer Tätigkeit am Hof (z.B. in Museion und Bibliothek, als Prinzenerzieher) auch dichteten, als auch solchen, die versuchten, mit ihrer Dichtung sich am Hof ein Entree zu verschaffen. Die entscheidenden Themen der Dichtung (aufgrund der Überlieferungslage vornehmlich mit den Ptolemäern verbunden: die Person des Königs; der Herrscher- und Dynastiekult; Geschehnisse und Personen innerhalb der Hofgesellschaft und in der Hauptstadt; die Götter und die religiöse Praxis, die ägyptischen Untertanen, das Land Ägypten und die ägyptische Königsideologie) ergaben sich allesamt aus der innerhöfischen Kommunikation und aus der Selbstdarstellung der Ptolemäer nach außen und wurden nicht eingefordert. Diese Themen wurden zementiert, poetisch variiert, in weitere, z.B. mythologische Kontexte versetzt und im Einzelfall durchaus auch umakzentuiert, weshalb hier weitgehend eine Funktion der Dichtung als "creazione del consenso“ besteht.
Die Macht der Dichtung lag nicht zuletzt in ihrer politischen Rolle. Denn mit Blick auf Symposien und Feste als bevorzugte Aufführungskontexte bestand zwischen den Dichtern eine erhebliche Konkurrenzsituation um die Gunst des Königs und um die eigene Positionierung innerhalb der Hofgesellschaft. Diese Konkurrenz wurde über das Medium der Dichtung ausgetragen.