Convegno 2007: Patria diversis gentibus una? Unità politica e identità etniche nell'Italia antica

Riassunti degli interventi




Luciana Aigner Foresti (Wien), Sopravvivenza di istituzioni etrusche in età imperiale

Illustri studiosi quali Th. Mommsen, A. Rosenberg e S. Mazzarino hanno trattato già in passato, più o meno estesamente, il tema delle magistrature municipali che sarebbero, secondo Mommsen, di origine romana, secondo Rosenberg di origine latina e secondo Mazzarino epicorie. La relatrice prende oggi in considerazione in particolare le istituzioni ceretane di età imperiale del tutto diverse da quelle di altre città della regio VII.
I progressi fatti in questi ultimi anni da studi etruscologici del tutto indipendenti dal tema qui posto, invitano a riprendere l'argomento. Essi permettono di apportare alcune precisazioni alla tesi che le anomalie della costituzione ceretana di età imperiale sono legate alla sopravvivenza di istituzioni etrusche.
Nel corso della relazione vengono esaminate iscrizioni etrusche e latine da Caere con i titoli di zilath (seleita), maru, dictator e aedilis. Lo Zilath seleita è testimoniato in una delle iscrizioni sulle lamine di Pyrgi (inizio del V secolo a.C.), il Maru nominato una volta su un cippo proveniente dal territorio ceretano e databile intorno alla metà del VI secolo a.C. ed una seconda volta su una iscrizione ceretana databile nel III secolo a.C.
Le iscrizioni latine con i titoli di dictator e aedilis sono due di età claudia, la terza risale al 113-114 d.C., e dunque all'epoca di Traiano. Il paragone tra le iscrizioni permette di annotare i cambiamenti verificatisi a Caere in campo istituzionale nel giro di alcuni decenni, ma permette anche di notare che le magistrature ordinarie di Caere nel I secolo d.C. erano la dittatura e l'edilità.
A Roma la dittatura non compariva più dalla fine della seconda guerra punica: Le dittature di Silla e di Cesare erano state, com'è noto, cariche straordinarie. La dittatura ceretana non fu dunque introdotta o imposta da Roma in età imperiale, ma fu una carica che esisteva a Caere da tempo e che accomunava Caere a Roma e / o alle città latine. Si cercherà di trovare i precedenti di questa dittatura nel passato istituzionale di Caere. Altrettanto si farà per un'edilità ceretana con poteri giusdicenti e responsabile dell'erario, e quindi con caratteristiche del tutto peculiari rispetto all'edilità conosciuta a Roma, ma vicina a quella di alcune città latine.
La dittatura e l'anomala edilità ceretana risalgono a magistrature epicorie adattatesi via via ai cambiamenti istituzionali che si verificarono nel corso del tempo nell'Italia centrale tra i Monti Albani, i Monti della Tolfa e la foce del Tevere.

Alessandro Barchiesi (Siena - Arezzo), Bellum italicum e identità italica nell'Eneide

Ascoli e Corfinio hanno avuto meno fascino sugli interpreti di Virgilio rispetto ad Azio e Farsàlo. Il contesto storico del poema è stato di solito localizzato fra le grandi battaglie delle guerre civili e il processo di instaurazione della pace imperiale. L'ambientazione italica del racconto epico, di fronte a questo scenario allargato, appare meno interessante. Lo scudo di Enea, del resto, promette una visione del  mondo che si riduce a una città unica e a un cosmo sterminato, enfatizzando centro e margini.
Fra la città di Roma e le lontane, esotiche prospettive di un impero in espansione, tuttavia, c'è ancora la questione italica. Vicini e simili, gli Italici sono da tempo in via di integrazione, o meglio, anticipano il destino di molti altri popoli, e, in questo processo, continuano a perdere e a guadagnare su tavoli diversi. L'Eneide promette agli italici una nuova identità culturale, e mantiene la promessa in modo ambiguo, continuando la tradizione romana di mescolare insieme spoliazioni e conferimenti, doni e sequestri.
Nello spazio di questo contributo, esamino alcune zone dell'Eneide in cui sembra proporsi una "questione italica", in riferimento alla guerra, alla sua genesi, scopo, svolgimento e risultato. Partendo dal paradosso per cui Enea cerca l'Italia ma fonda Roma, e trova già formato il popolo che da lui trae origine (genus unde Latinum), vedremo come il testo, tra i suoi vari e molteplici riferimenti storici, abbia bisogno di un riferimento implicito alla guerra degli Italici contro Roma, il Bellum Sociale, uno scenario a cui gli interpreti di Virgilio hanno spesso riservato scarsa attenzione, anche perché la sua presenza nella memoria storica non è mai stata garantita da un testo autorevole.

Dominique Briquel (Paris), Il ruolo della componente etrusca nella difesa della religione nazionale dei Romani contro le externae superstitiones

Nel I sec. a. C. esisteva un vivace dibattito sull'apporto delle diverse parti dell'Italia riunita sotto l'egemonia di Roma, alla costruzione del mondo romano. Questo riguardava particolarmente il ruolo dell'Etruria, attorno al quale furono espressi pareri contrastanti, come fu evidenziato da D. Musti per gli storici (Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica, studi su Livio e Dionigi d'Alicarnasso, Roma, 1970) e da M. Sordi, con un gruppo dei suoi alllievi, per la poesia (« L'integrazione dell'Italia nello stato romano attraverso la poesia e la cultura protoaugustea », Contributi dell'Istituto di Storia Antica, 1, 1972, p. 146-175). Siamo dunque di fronte ad un gioco di concorrenza tra i popoli della penisola, nel quale ciascuno cercava a mettere in rilievo il particolare debito di Roma verso sé e a presentare in un modo sfavorevole gli altri.
Tale dibattito si capisce in un tempo nel quale la prossimità cronologica dei tempi dell'indipendenza rendeva ancora vivace il senso di appartenenza a componenti diverse e spesso contrastanti dell'Italia. Invece nel periodo dell'Impero già avanzato, l'esistenza di ethnè diversi nella penisola, ciascuno con la sua propria lingua e una cultura autonoma, apparteneva a un remoto passato. Non si può dire per esempio che il riferimento ai Sabini, che aveva suscitato tanto interesse nell'età classica, abbia conservato la pur minima importanza. Il ricordo del passato dei diversi popoli dell'Italia preromana non esce dalla mera erudizione.
Invece, lo stesso non si può dire nel caso degli Etruschi. Certo non esisteva più, da tempo, una civiltà etrusca autonoma. I tratti più salienti della cultura nazionale, come la lingua, non esistevano più: l'iscrizione etrusca più tarda che possediamo, un documento bilingue etrusco-latino su una urna in marmo, proveniente da Arezzo, risale al regno di Tiberio. Ma si continuava a parlare di Etruschi, a riferirsi a loro: l'antica cultura etrusca continuava ad avere una grande importanza nella religione ufficiale, attraverso la scienza sacra degli aruspici. Veniva così operata una identificazione tra Etruschi e gli specialisti della scienza religiosa di tradizione etrusca, e l'Etrusca disciplina continuava a mantenere vivo il riferimento a quell'ethnos dell'Italia dei tempi anteriori alla conquista militare e all'unificazione linguistica e culturale compiuta da Roma - diversamente di tanti altri popoli che non rappresentavano più niente nel mondo romano di età imperiale.
Nei tempi della repubblica, il senato s'era rivolto verso gli aruspici per rispondere ai bisogni religiosi della res publica. In uno stato divenuto monarchico, l'imperatore aveva a sua disposizione i suoi aruspici personali, che intervenivano sia nei casi di prodigi, sia per permettere al principe di approffitare delle capacità divinatoria degli specialisti della Etrusca disciplina, in particolare attraverso l'osservazione del fegato delle vittime sacrificiali. Esisteva anche una aruspicina ufficiale a livello municipale: corpi locali di aruspici sono attestati in molte città del mondo romano, in Gallia, Belgio, Germania, Norico, Mesia, Dacia. Accanto agli specialisti ufficiali, l'aruspicina privata, già fiorente nei tempi precedenti, s'era diffusa in tutte le parti dell'impero romano - almeno nella sua metà occidentale, di lingua latina, quella orientale, di lingua greca, avendo altre tradizioni mantiche: il recente studio di M.-L. Haack (Prosopographie des haruspices romains, Pisa-Roma, 2006) enumera più di cento iscrizioni di aruspici. Lungi dell'avere provocato un deperimento dell'antica scienza religiosa degli Etruschi, il periodo imperiale, con l'estensione che aveva dato al dominio di Roma, le aveva concesso una estensione che era impensabile nel periodo dell'indipendenza etrusca.
L'importanza dell'aspetto religioso nella percezione dell'identità degli Etruschi, cioè, dietro di essa, l'importanza delle scienza religiosa di tradizione etrusca nella società, è un fenomeno che si lascia percepire già nei tempi classici, nel I sec. a. C. Rispetto alle vecchie rappresentazioni degli Etruschi, legate ad una loro percezione negativa, sia quella della pirateria, sia quella che insisteva sulla truphè etrusca e ne faceva un popolo incapace di qualunque attività virile, emerge l'immagine, secondo la nota formula di Livio (5, 1, 7), di una gente ante alias magis dedita religionibus, cioè più di tutte le altre addetta alle pratiche religiose.
Ma, nella religione nazionale dei Romani, non veniva più sentita una reale differenza tra ciò che era di origine etrusca e ciò che era genuinamente romano. È significativo che, nel discorso che l'imperatore Claudio pronunciò nel 47 davanti al senato per dare una nuova vitalità al corpo degli aruspici, egli accennasse alla loro scienza sacra come « la più vecchia scienza dell'Italia », uetustissima Italiae disciplina: non appariva più come una dottrina etrusca, l'Etrusca disciplina in senso stretto, bensì era divenuta un bene comune di tutti gli abitanti della penisola. Insomma, l'Etrusca disciplina faceva ora parte del mos maiorum dei Romani.
Questo spiega come, se il mos maiorum dei Romani sembrava messo in pericolo in materia di religione, ll'Etrusca disciplina potesse apparire come il suo migliore baluardo. Ora, durante il periodo imperiale, la religione tradizionale poteva sembrare messa in pericolo dallo sviluppo di nuove forme di religiosità, che potevano apparire più adatte alle attese spirituali degli uomini di quel tempo, specialmente dalle cosidette « religioni orientali », tra le quali, naturalmente, c'era la religione nata in Giudea, inizialmente all'interno del giudaismo, dall'insegnamento di Gesù. Una situazione di concorrenza religiosa, e di messa in crisi della vecchia religione nazionale, s'era dunque creata, nella quale la componente etrusca di essa fu chiamata alla riscossa. È significativo che già uno degli scopi di Claudio era di lottare contro le externae supersititiones, superstizioni straniere (Tacito, Annali, 11, 15, 1). Nel periodo posteriore, quando le persecuzioni si svilupperano apertamente contro i cristiani, la difesa della religione tradizionale si appoggiò chiaramente sui rappresentanti della sua componente etrusca. La Grande Persecuzione, dal 303 in poi, fu decisa da Diocleziano al seguito di un sacrificio offerto dall'imperatore, nel quale il capo degli aruspici imperiali lo avvertì che gli dei rifiutavano di mandare segni, come ci si attendeva. Questa gravissima situazione, che rischiava di provocare i peggiori danni per l'impero, era dovuta, secondo gli aruspici, alla presenza di cristiani. Si vede dunque che, grazie alla loro posizione nelle religione ufficiale dello stato, e accanto alla persona del principe, gli specialisti della scienza religiosa etrusca furono direttamente coinvolti nell'offensiva contro il cristianesimo. Ma questo era il segno di una ostilità generale del corpo contro la nuova religione: ne abbiamo la conferma negli scritti degli autori cristiani, che non nascondano il loro odio verso gli aruspici.
L'importanza che l'Etrusca disciplina ebbe nella resistenza della vecchia religione romana contro le novità religiose, e specialmente l'espansione del cristianesimo, non si limita però allo sfruttamento della posizione privilegiata della quale godeva nell'impero. Intellettualmente, l'antica tradizione etrusca offriva aspetti che, meglio delle altre componenti della religione nazionale, potevano rispondere alle attese dei contemporanei. Tra tali aspetti, c'era già il fatto che era, in gran parte, una scienza divinatoria. Siamo, per riprendere la famosa espressione del Dodds, in quellà età di angoscia (Pagan and Christians in an Age of Anxiety, Some Aspects of Religious Experience from Marcus Aurelius to Constantine, Cambridge, 1965), che spingeva gli uomini a domandarsi con timore quale era il destino che li aspettava e a chiederne i segreti alla divinità. Il pagano Celso, nel suo libro contro i cristiani, poteva chiedere : « Esiste qualche cosa che sia più divino che la previsione e la predizione del futuro? »: era un compito essenziale della religione, come era concepita in quel tempo.
Ma questo aspetto ebbe certamente una minore importanza, rispetto al cristianesimo, di un altro aspetto della vecchia religione etrusca. Un punto centrale della nuova religione, che si riferiva ad un salvatore morto e risuscitato, era di proporre all'attesa dell'uomo una prospettiva di vita dopo la morte, fatta di felicità e di consolazione delle pene sofferte nella vita terrena. Rispondeva così certo meglio all'attesa degli uomini della vecchia religione nazionale, che poteva offrire loro soltanto nozioni vaghe, come quelle di lemuri o di mani, e un mondo dell'aldilà che si riduceva al nome dell'Orco, sul quale non si sapeva nulla. Ma, diversamente dei Romani, gli Etruschi avevano idee precise sull'aldilà, idee che erano esposte in una particolare categoria dei loro libri sacri, i libri dell'Acheronte: grazie a particolari sacrifici, era possibile per gli uomini diventare dei animales, cioè dèi formati da una anima. Tale dottrina, che permetteva di sperare in una felicità eterna raggiunta attraverso semplici mezzi rituali, può sembrarci meccanica, se non puerile; ebbe però un certo successo nel periodo finale dell'Impero, come mostrano le non poche allusioni che vi fanno autori sia cristiani, sia pagani. Appare così essere stata, in quel tempo, una delle teorie che la religione pagana poteva proporre come alternativa alla nuova fede cristiana.
Dunque gli elementi di origine etrusca che erano stati integrati nella religione romana potevano apparire come i più capaci, all'interno di essa, di resistere a quelle externae superstitiones delle quali, già nel 47, l'imperatore Claudio denunziava il pericolo che rappresentavano per la tradizione religiosa nazionale. Più delle altre sue componenti, quella etrusca offriva punti che ne facevano una valida alternativa proprio rispetto al cristianesimo. Come è stato sottolineato da molti, la religione etrusca era una religione del libro: gli aruspici avevano a loro disposizione i libri sacri nei quali era conservata la loro scienza religiosa. La religione etrusca aveva dunque un punto di riferimento fermo, che le consentiva una solidità dottrinale che non avevano altri aspetti del paganesimo tradizionale. Soprattutto, la religione etrusca era una religione rivelata: la disciplina non appariva come il risultato dell'opera di uomini, bensi di una rivelazione, fatta da esseri soprannaturali, quelle figure profetiche che avevano insegnato i suoi principi agli Etruschi, nei primi tempi dell'esistenza della nazione, il bambino Tagete o la ninfa Vegoia. Così, in un tempo in quale si aspettava che una verità non venisse soltanto dall'uomo, ma fosse il risultato di una rivelazione fatta da esseri divini, la religione etrusca forniva una risposta nazionale, propriamente italiana e romana, alle religioni venute dall'estero, come quelle giudaica e cristiana, con i loro libri sacri e i loro profeti.
Questo attaccamento alla tradizione etrusca non significa che essa sia rimasta come era prima e non abbia subito cambiamenti, anche importanti. Per esempio, un lemma del lessico bizantino della Souda ci ha conservato un preteso racconto etrusco della creazione, che è una parafrasi del Libro della Genesi, con aggiunta di certi elementi di origine iranica.
Tali sforzi della vecchia tradizione etrusca per offrire qualche cosa di simile a ciò che offriva la giovane religione cristiana o le altre novità spirituali che si diffondevano nell'impero romano, possono apparirci ridicoli e, certo, un tardo tentativo di aggiornamento del genere non bastò a impedire ciò che doveva succedere, la sparizione dell'antica religione nazionale e il passagio degli abitanti dell'impero romano al cristianesimo. Ma traduce anche, con questi ultimi esempi, in una forma forse eccessiva, la capacità di adattamento, di risposta alle rinnovate esigenze religiose degli uomini di quel tempo, che conservava la componente etrusca della religione romana. Essa possedeva, dall'origine, aspetti che si rivelevano in sintonia con le attese della tarda Antichità, offriva anche certe possibilità di sviluppo che le conferivano una capacità innovativa che era quasi sola ad avere all'interno della religione romana. Mentre tanti altri aspetti del mos maiorum in materia di religione erano ridotti a mere sopravvivenze del passato, l'aruspicina rimaneva viva e poteva sembrare portare le speranze dei difensori della religione tradizionale, nella quale era integrata da secoli.

Luciano Canfora (Bari), Cosmopolitismo antico

"Cosmopolitismo" è parola che denota un orientamento filosofico, una visione dell'unità del genere umano, spiccatamente presente nello stoicismo; ma è anche un modo di vedere la realtà politica e la compagine statale e imperiale. L'analisi si propone di cogliere, attraverso esempi significativi, il nesso tra lo sviluppo, da un lato, della realtà politica romana in direzione del progressivo allargamento e della progressiva inclusione nella "cittadinanza", e, per altro verso, il progressivo affermarsi della visione "cosmopolitica" nei diversi ambienti della società romana e del mondo controllato da Roma. Il punto di partenza sarà il grande saggio di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff Storia italica pronunziato a Firenze, nella traduzione di Giorgio Pasquali, nel maggio del 1925.

Mireille Cebeillac-Gervasoni (Paris), I rapporti fra le élites latino-campane e Roma (III sec. a.C. - I sec. d.C.): un'indagine prosopografica

Preciso anzitutto che parlerò di élites del Lazio e della Campania, formulazione piu esatta che latino-campane, tenuto conto della cronologia: fine III sec. a.C. / inizio I sec. d.C. Si noti che la prosopografia è preziosa a partire del terzo quarto del II sec. e soprattutto per il I sec. a.C.
Questa zona (la futura regio I Augustea) può essere un interessante "campione" delle relazioni tra Roma e le élites locali (riprenderò al riguardo osservazioni già formulate da molti storici). In questa regione, che si considera giustamente come il cuore della romanizzazione, ancorà nel II sec. a.C. e fino al 90/89, ci sono tutti i tipi di statuti giuridici: colonie romane, latine, municipia cum e sine suffragio, che Roma istituisce in queste zone di fronte a lei come nel resto dell'Italia; ogni città (escludendo Capua) in teoria conserva, con un'infinità di sfumature, una certa indipendenza di governo.
1. Dalla fine della seconda guerra punica fino agli anni 90/89, si può presentare un elenco dei vari tipi di rapporto che Roma intrattiene (tramite i suoi dirigenti) con i dirigenti locali:
- certi rientrano nel campo quasi privato dei rapporti personali tra individui (hospitium reciproco, accoglienza a Roma dei figli di notabili locali, relazioni "mondane" durante i soggiorni dei Romani "sul Golfo" o nelle villae fuori Roma, uso da parte dei senatori degli amici latini per aggirare le leggi economiche limitative). Ovviamente questi contatti favoriscono l'integrazione al modus vivendi urbano, forse è in questo modo che Roma arriva a meglio conoscere queste élites e tende a volerle meglio integrare. Rimane discutibile l'ambizione dei membri delle aristocrazie locali all'ammissione al senato di Roma, che comunque non accoglie quasi nessun homo novus da queste regioni nel II secolo;
- altri rapporti sono più ufficiali: adozione delle leggi urbane (testamenti, leggi tabellarie, Cicero, pro Balbo, 20 e de leg., III, 35); interventi edilizi dei censori nelle città all'inizio del II sec.; assunzione di magistrature locali da parte di senatori urbani; ambascerie di cittadini presso il senato per questioni riguardanti la loro città;
- trasformazioni urbanistiche su modelli ellenistici delle città del Lazio e della Campania, anche prima della municipalizzazione successiva al 90 (cfr. Aletrium, Cora, Tibur, Pompei, Cumae...);
- altri rapporti hanno un carattere negativo:
a) gli abusi di magistrati urbani durante i loro viaggi (discorso di C. Gracchus, ORF4, n.48)
b) imposizione di leggi urbane con il pretesto del bene comune
c) punizioni esemplari (Fregellae)
d) rancori persistenti (i Tusculani dall'epoca della guerra latina secondo Liv. VIII 37,8, confermato da Val. Max. IX 10,1)
e) pregiudizi negativi a Roma per "homines ignoti e repentini" per oratori non urbani (per esempio i Caepassi, domi nobiles secondo Cicerone, Brutus, 242); Catone il censore detto Tuscolo Urbis inquilinus, cioè emigrato a Roma (Vell. II 128).
2. Dopo le leggi del 90/89: La strada difficile verso una patria
Rimangono sempre tutti gli aspetti del contesto dei rapporti fra Roma ed élites locali visti sopra, però le guerre civili obbligano le aristocrazie locali a prendere partito e, con loro, le loro città, con esiti più o meno felici secondo l'esito del partito preso; così certe città e la loro élites perdono tutto (Preneste, Pompei...). Fino alla mittoria di Ottaviano, le élites locali sono trascinate nelle guerre fratricide dell'Urbs (Mario e Silla, Pompeo e Cesare, Ottaviano + Antonio e Sesto Pompeo, Antonio e Ottaviano), con conseguenze drammatiche per numerose famiglie.
Dal 90-89, tutti gli uomini liberi sono diventati cittadini romani e forse molti domi nobiles guardano verso Roma per ritrovare una posizione privilegiata in mezzo ai loro concittadini, i quali, spesso, non avevano la civitas Romana. Anche se questo clima è drammatico, diventa un'occasione per integrare gli ambienti urbani e, nel caso della scelta del partito del vincitore, per approfittarne per passare nell'ambiente dei dirigenti romani con tutti i benefici collaterali (cfr. recupero dei beni dei proscritti...). I partigiani di Ottaviano, in parte provenienti da queste aristocrazie locali (particolarmente dalla Campania) formano questa nuova nobiltà così ben definita da R. Syme nella Roman Revolution.
Una parte di queste élites locali entra nel mondo della tota Italia, fondendosi nell'una patria, dando un'appoggio al nuovo princeps in caso di necessità; si conservano i legami con la città di origine (cfr. Cicerone sulla "piccola patria"), dove dopo l'ascesa a Roma si continua ad assumere magistrature (il figlio e il nipote di Cicerone ad Arpinum, Milone a Lanuvium ecc...). Però, a partire della vittoria di Augusto, tante cose cambiano: così i grandi lavori urbanistici nelle città sono programmati su richiesta del princeps (che spesso farà anche opera di evergetismo verso queste città); allo stesso modo, il princeps porrà sotto controllo tutti i grandi santuari locali (Fortuna Primigenia di Preneste, Diana del Monte Tifata, Giunone Sospes a Lanuvio, tempio della Fortuna equestre di Anzio) "recuperando per lui l'importanza di luoghi di memoria italica" (cfr. J. Scheid, Rome et les grands lieux de culte italiens, in Pouvoir et religion dans le monde romain, Paris, 2006, 75-86, e v. p. 85).

Federica Cordano (Milano), Epigrafia greca nell'Italia romana

Un notissimo passaggio di Strabone (VI 253) indica in Taranto, Reggio e Napoli (questo l'ordine geografico in Strabone) le sole città greche dell'Italia che non si siano "imbarbarite", non mi fermo tanto sull'interpretazione del verbo, tengo però a dire che forse aveva ragione Lasserre ad attribuire a Posidonio quella affermazione (oppure Sartori ad Artemidoro) comunque ad un secolo prima, tanto che i tre nomi si trovano associati anche nel Pro Archia di Cicerone, proprio nello stesso senso (III 5 anche nello stesso ordine), pur limitato all'attività teatrale e poetica, e vedremo quanto essa trova riscontro nell'epigrafia!
Gli stessi tre nomi ricorrono in Livio (XXXV, 16), in un passo relativo al 193 a.C. ed importante per trovare il senso che li collega, infatti le tre città sono socii navales e " fedeli da quando sono entrate in nostro possesso"; sappiamo che non è sempre stato così, però la disponibilità per i Romani di un importante porto è ciò che accomuna quelle tre città.
La situazione prospettata da Livio inizia con il secondo secolo a.C., anche se sarà migliorata da Augusto: ecco perché piuttosto che a Strabone penso alle sue fonti e soprattutto mi pare che l'importanza di quelle città non riposi tanto nel non essere "imbarbarite" quanto nella loro posizione e funzione rispetto a Roma. Le iscrizioni greche più interessanti per noi iniziano proprio nel II sec. a. C. e finiscono nel secondo dopo Cristo.
Cicerone, nell'elencare le città che hanno concesso la cittadinanza ad Archia (Ib. V 10), mette Locri dopo Reggio e prima delle altre due, questo non fa problema, non solo perché molte sono le città che ospitarono Archia, ma soprattutto perché abbiamo testimonianza di conservazione di istituzioni greche anche in città diverse dal breve elenco straboniano, e poi vedremo com'è interessante l' accostamento Reggio-Locri (quest'ultima è anche un socio navale: Polyb. XII 5,2).
Un'altra citazione ciceroniana (de finibus I 3,7) dimostra che il non imbarbarimento di quelle tre città non vuol dire necessariamente il perseverare nell'uso della lingua greca: infatti Lucilio citato da Cicerone dice di scrivere per Tarantini, Cosentini e Siculi, cioè per i non greci, per i parlanti latino, rispettivamente, di Iapigia, Bruzio e Sicilia. Vedremo infatti una situazione epigrafica molto diversa a Taranto, rispetto a Reggio e Napoli, perché intendo comunque seguire questo schema per riferire sulla sopravvivenza dell'epigrafia greca nell'Italia romana.
Non parlo qui di Sicilia, non solo perché non è richiesto, ma perché in Sicilia la lingua greca rimane comunque quella prevalente fino al Tardo Impero, lo sanno tutti, le iscrizioni latine sono poche e sono solo nelle città! Però mi pare pertinente al nostro colloquio ricordare brevemente la cognatio fra Centuripini e Lanuvini: noi abbiamo la copia di Centuripe, scritta in un greco dorico, a Lanuvio ci sarà stata la copia in latino, ma è molto utile sapere che persino per affermare di essere 'latini', gli abitanti di Centuripe, forse nel I sec.a.C., scrivessero in greco un documento ufficiale tanto rilevante per loro.

Giulio Firpo (Chieti), Il rapporto fra Roma e il mondo italico in alcune riletture d'età moderna

La relazione prende in esame alcune tra le più significative letture offerte tra gli inizi del XVIII secolo e gli inizi del XIX secolo del rapporto tra Roma e le popolazioni dell'Italia antica (etruschi, osco-sanniti, magnogreci). Le condizioni politiche generali di questo periodo favorirono per lo più (non senza talune significative eccezioni, concentrate peraltro nel primo trentennio del XVIII secolo) l'elaborazione di interpretazioni nelle quali venivano esaltate la cultura e le virtù civili e militari delle popolazioni antiche, contrapposte alla "barbarie" e di Roma, vista come potenza violenta e sopraffattrice dell'antica libertà "italica", garantita politicamente dallo Stato di piccole dimensioni (la città etrusca e magnogreca; la tribù osco-sannitica), unito ad altri omologhi ordinamenti, al massimo, da vincoli di natura federativa. Naturalmente, non si tratta di letture che seguono un percorso rettilineo e progressivo; in particolari condizioni - ad esempio, durante l'occupazione napoleonica dell'Italia - parrebbe affacciarsi un'idea unitaria, rimasta però isolata. Occorreranno ancora alcuni decenni perché, in corrispondenza con l'evoluzione della situazione politica in Italia e in Europa, si facciano strada letture della storia e progetti che riportino positivamente il ruolo di Roma al centro dell'attenzione e delle aspirazioni.

Hartmut Galsterer (Bonn), Foedus, ius Latii und civitas im römischen Italien

Im größeren Rahmen des Zusammenlebens verschiedener Ethnien im römischen Italien beschäftigt sich dieses Referat mit den rechtlichen und sozialen Bindungen zwischen Rom und den anderen Gemeinden Italiens. Diskutiert werden:
1. Die Bindungen an Rom, d.h. die verschiedenen Formen des Bürgerrechtes, des ius Latii und des Status der peregrini, der Fremden. Das Bürgerrecht löste sich ab dem 2. Jahrhundert v.Chr. langsam von dem Wohnsitz in Rom und Umgebung und wurde für Bewohner peregriner Städte zu einem Zweitbürgerrecht, das die Privilegien des civis Romanus mit dem Verbleiben in der angestammten Heimat verband. Andererseits gab es in eroberten Gebieten, wo römische Bürger angesiedelt wurden, auch für kürzere oder längere Zeit Enklaven von früheren Bewohnern (Gallier z.B.), bis diese in das Bürgerrecht integriert wurden.
2. Der Art des Bürgerrechts entsprachen nicht völlig, aber in etwa bestimmte Stadtformen, wobei die Gemeinden der römischen Bürger und der Latiner generell städtisch geordnet waren, mit einem zentralen Ort also, diejenigen der Peregrinen aber zu einem guten Teil (vor allem im Appennin) kein solches Zentrum hatten, sie also per pagos vicosque lebten. Solche Gaue und Dörfer wurden im Verlauf der Urbanisation dann zu Städten organisiert, oder die stärkste Ansiedlung unterwarf sich die benachbarten Dörfer, wie wir das von Rom kennen. Die Städte der Bürger und Latiner waren Munizipien und Kolonien, deren später wohl definierte Typen sich auch im Lauf des 2. Jahrhunderts herausbildeten.
3. Das Zusammenleben zwischen Römern, Latinern und Peregrinen war aber nicht nur durch rechtliche Vorschriften geregelt, von denen es anfangs sehr wenige gab, sondern auch durch soziale Konventionen. Eine der wichtigsten Institutionen in diesem Bereich war das Patrocinium, durch das römische Senatoren zu Schutzherren auswärtiger Gemeinden wurden; sie konnten in dieser Funktion Wünsche Roms oder der Gemeinden, die durch Briefe und/oder Gesandtschaften übermittelt wurden, befördern. Diese Patroni galten auch im Senat als Spezialisten" für die entsprechenden Gemeinden. Solche sozialen Bande brachten das Zusammenwachsen Italiens, wie es sich bereits im gemeinsamen Heer herausgebildet hatte, bis zum Bundesgenossenkrieg bereits ein erhebliches Stück voran.

Ulrich Gotter (Konstanz), Zwischen Griechenland und Italien: Catos Konzept der römischen Ethnogenese

Im Gegensatz zu Catos Geschichte Roms seit dem 1. Punischen Krieg war seine Darstellung der römischen Ethnogenese außerordentlich einflussreich in der literarischen Tradition. Von den Fragmenten seiner Origines, die später zitiert wurden, stammt eine unverhältnismäßig große Zahl aus den ersten drei Büchern, die sich mit der Frühgeschichte Roms und Italiens beschäftigen: Bis in die Spätantike hinein galt Cato zweifellos als Autorität für die Entstehung und die ethnische Zusammensetzung des römischen Volkes.
Unter diesen Umständen erscheint es umso notwendiger, sich mit den Parametern auseinanderzusetzen, die Catos Konstruktion der römischen Frühgeschichte bestimmten. Dabei ist zunächst zu notieren, daß die gesamte Anlage der Origines unterstreicht, wie wichtig ihm die Frage der Ethnogenese für den Gehalt der römischen Geschichte insgesamt war. Mit den ersten drei Büchern, die das römische Volk umfassend im italischen Ethnokontext fixieren, geht er weit über das Schema der Gründungsgeschichten hinaus, die die römische Geschichtsschreibung - nach gut griechischem Muster - vor ihm formuliert hat. Welchen Sinn Cato mit diesem idiosynkratischen Aufwand stiften wollte, läßt sich vielleicht am besten an seinem Bericht über die den Aborigines und Sabiner verfolgen, die er an zentralen Stellen in die römische Volks-Genealogie implantiert hat. Beide thematisieren meines Erachtens - wenn auch auf unterschiedlicher Ebene - die Frage der nach Rom reichenden griechischen Abstammungslinien. Dabei mag es auf den ersten Blick verwundern, daß ausgerechnet Cato, der immer scharfe Vorbehalte gegenüber den "Griechen" und "dem Griechischen" formulierte, mit seiner Auffassung von den Aborigines ausgerechnet die griechische Abstammung Roms ganz tief in der italischen Geschichte verankert. (Ähnlich, wenn auch etwas uneindeutiger verhält es sich mit der genealogischen Nähe der Sabiner zu den Spartanern, mit der Cato zumindest spielt).
Vor diesem Hintergrund wird mein Vortrag argumentieren, daß Cato ein zeitlich vor den Trojanern und den Arkadern des Euander liegendes griechisches Substrat des römischen Volkes konstruierte, um exklusive gräzisierende Familiengenealogien zu entwerten, die sich kreative Angehörige der römischen Führungsschicht in der ersten Hälfte des 2. Jhdts. v. Chr. zuzulegen begannen. Mit einer gleichsam egalitären Ethnogenese konnte der Zensor zugleich das römische Volk als ganzes zum zentralen Akteur seiner Geschichtsschreibung machen.

Marie-Laurence Haack (Arras), Il concetto di "transferts culturels": un'alternativa soddisfacente a quello di "romanizzazione"? Il caso etrusco

Alcuni specialisti della storia culturale francese e tedesca del XIX secolo secolo hanno formulato una teoria generale dei «transferts culturels» per spiegare la formazione di una cultura «nazionale» a partire da elementi stranieri. Per alcuni antichisti, questa teoria permette di evitare i pericoli di un riscorso sistematico alla romanizzazione, mettendo l'accento sulla lunga durata: un "transfert" è preceduto da altri, anche all'insaputa dei suoi mediatori, e si effettua tramite oggetti che subiscono delle ricontestualizzazioni culturali, modificando la loro forma, il loro impiego e il loro significato. Il mio intervento si propone di esaminare, a partire da un singolo caso, la validità della teoria dei «transferts culturels» per la comprensione della formazione dell'Italia romana. L'oggetto scelto è la bulla portata dai bambini ingenui romani. Dal II secolo a.C. questo oggetto è visibile su statue e statuine votive di bambini nei santuari d'Etruria. L'apparizione simultanea della bulla, della toga e del velo su alcuni oggetti votivi potrebbe portare alla conclusione che la presenza della bulla nel territorio etrusco sia un semplice effetto della conquista romana, ma l'esame delle insegne e dei gioielli portati prima della conquista romana mi induce a considerare questo 'prestito' come un contro-transfert. Infatti la bulla è già presente in alcune tombe etrusche dell'VIII secolo a.C., forse per imitare quanto avveniva a Rodi, e prima ancora (età del Bronzo recente) in Anatolia, in Siria-Palestina, a Cipro, in Mesopotamia, a Elam e nell'Iran. Tuttavia la presenza della bulla in Etruria nel II secolo a.C. non può essere semplicemente interpretata come la riapparizione di un elemento della cultura indigena. L'oggetto è poco cambiato materialmente, ma ha un significato diverso: nell'epoca orientalizzante caratterizza le tombe dei giovani nobili, forse soltanto delle bambine, mentre a partire dal II secolo a.C. è, come a Roma, il privilegio dei bambini ingenui.

Stephen Harrison (Oxford), Laudes Italiae (Georgics 2.136-76): Virgil as A Caesarian Hesiod?

This paper argues that the celebrated laudes Italiae passage at Virgil Georgics 2.136-76 is metaliterary, referring to the Georgics themselves: the statements made about the Italian landscape also apply to the poem about the Italian landscape. It also argues that the passage is metageneric, negotiating the space for the Georgics within the broader context of the epic tradition : contrasts are drawn here between Virgil's poetic enterprise and previous hexameter poems with which the Georgics has connections - the Argonautica of Apollonius of Rhodes and perhaps that of Varro Atacinus, and the didactic poems of Nicander who supplies both some content (e.g. on snakes) and the title (Georgika) of Virgil's poem. One of the main functions of the passage is thus to map out the literary space within epos which the poem will occupy: Virgil will be the new Hesiod of Italy.
This paper also argues that this episode is much more firmly rooted than scholars have thought in the anti-Oriental and pro-Italian propaganda of the period surrounding the battle of Actium. The references to Media and the East are partly echoes of the triumphant career of Alexander the Great, but they also recall the contemporary victories of the young Caesar in the aftermath of Actium, the period of 31-29 BC. The superiority of the Italian landscape over the inferior regions of the East in flora, fauna and natural advantages is a clear symbol of Caesarian Italy's victory over the Antonian East. The poet adds a personal element to this, in that two of the regions mentioned (Lake Benacus and Avernus) are drawn from the two parts of Italy where he was born and where he was residing at the time of the Georgics - Mantua and the Bay of Naples.
Moving beyond the mythological plots of the Argonautic tradition, beyond the dry verse handbooks of Nicander, beyond the frigid panegyrics of the Alexander-poets, the Georgics has thus carved out its own place in the epic tradition, combining Hesiodic didactic exposition of the Italian landscape with the contemporary need for Caesarian encomium.

Cesare Letta (Pisa), I legami tra i popoli italici nelle Origines di Catone: tra consapevolezza etnica e ideologia

L'autore prende le mosse dalle riflessioni da lui esposte in un recente convegno su "L'insediamento fortificato sannitico e sabellico" tenutosi a Isernia nel marzo 2007: le popolazioni "italiche", cioè osco-umbre, mantennero una fondamentale consapevolezza dei loro legami etnici, di cui si coglie l'eco nelle leggende di etnogenesi in cui una discendenza, diretta o mediata, dai Sabini è attestata praticamente per tutte. Ai casi già noti (Sanniti-Campani-Lucani-Brettii; Picentes; Marsi, Peligni, Marrucini ed Ernici) si può ora aggiungere anche quello, particolarmente rilevante, degli Umbri, grazie ad una più attenta lettura della testimonianza di Dionigi di Alicarnasso (II, 49, 1) sulla posizione di Zenodoto di Trezene, che Briquel considera posteriore a Polibio, ma anteriore a Varrone.
Sulla base di queste premesse, l'autore riprende in esame il quadro dell'etnogenesi dell'Italia antica dato da Catone nelle Origines, ribadendo la tesi (v. "Athenaeum" 62, 1984, pp. 3-30 e 416-439) secondo cui, per fondare l'unità italico-romana, Catone scelse proprio i Sabini, valorizzando soprattutto i loro mores, riconosciuti come radice comune a Romani e Italici. La rete di tradizioni già esistente per le popolazioni italiche e la sia pur vaga consapevolezza etnica diffusa tra di esse, insieme alle tradizioni ormai consolidate sulla presenza sabina nelle origini di Roma favorirono questa scelta.
In quest'ottica, dopo aver ribadito che per Catone sia gli Aborigeni che i Sabini erano autoctoni e non greci, l'autore riesamina i frammenti delle Origines che parlano di elementi greci (popoli migranti o eroi fondatori) nelle origini di popoli o città dell'Italia antica: Pisa (fr. 45 P.), Falerii (fr. 47 P.), Tibur (fr. 56 P.), Petelia (fr. 70 P.), Tauriani (fr. 71 P.). Di alcuni viene discusso anche il testo e vengono formulate nuove proposte di restituzione. La conclusione è che Catone cerca sistematicamente di ridimensionare l'apporto greco che trovava nelle sue fonti, a volte semplicemente negandolo (come per i Sabini, per Praeneste nel fr. 59 P. o per Nola nel fr. 69 P.), altre volte presentandolo come marginale e perdente, sopraffatto dall'elemento indigeno e senza alcuna continuità col presente (come per Pisa, Falerii, Petelia e i Tauriani).
In definitiva, l'unica presenza greca ammessa, al di fuori delle colonie magnogreche di età storica, sembra quella degli Arcadi di Evandro, ricordati sia per Roma che per Tibur. Ma nel caso di Roma il loro è per Catone un ruolo marginale, che sembra ridursi alla funzione di diffondere la scrittura, e non partecipano né alla fondazione della città né alla formazione del popolo latino.
Nel caso di Tibur questa presentazione consente a Catone di respingere l'origine argiva della città, generalmente accolta dalle altre fonti, riducendo così alla sola componente arcade la presenza greca nel Lazio delle origini. E anche per Tibur, pur in assenza di dirette attestazioni in tal senso, si può forse sospettare che in Catone lo strato arcade primitivo risultasse poi sommerso e soppiantato dall'espansione sabina.

Anna Marinetti (Venezia), Aspetti della romanizzazione linguistica nella Cisalpina orientale

I fenomeni di bilinguismo e le modalità della transizione dalle lingue locali al latino sono stati analizzati prevalentemente a partire da fonti latine, sia letterarie che epigrafiche (in senso lato). Non va tuttavia trascurato l'apporto delle fonti relative alle lingue locali, forse meno indagate o valorizzate, in ragione delle loro caratteristiche: la disparità quantitativa dei rispettivi corpora, da questo punto di vista pressoché incomparabili; la diversità degli ambiti di provenienza (nelle premesse culturali e nel processo storico di romanizzazione); i caratteri - e i limiti - delle fonti stesse connessi alla natura del medium quasi esclusivamente epigrafico; la varietà delle basi linguistiche di partenza e la conseguente frammentazione disciplinare.
Diversi appaiono anche la ricaduta dell'analisi e gli obiettivi dell'indagine: nell'utilizzo delle fonti latine prevale l'interesse per la descrizione dei fenomeni linguistici della transizione, in una prospettiva più 'orizzontale' di ricerca di dati generalizzabili (sullo sfondo permane l'attenzione al problema della transizione dal latino ai 'volgari', con le implicazioni relative alle modalità del cambio linguistico e alle questioni relative ai cosiddetti 'sostrati'); gli apporti delle fonti locali sono piuttosto soggetti ad una lettura 'verticale', maggiormente focalizzata sulle singole aree e collegata alla definizione delle diverse attuazioni del processo storico di romanizzazione rispetto alle aree stesse.
Sulla base di queste premesse, l'intervento si concentra sulla documentazione epigrafica delle lingue encorie dall'area della Cisalpina orientale, in particolare del venetico; accanto a fonti già ampiamente entrate in circolazione (l'onomastica di Ateste, la continuità del santuario di Lagole di Calalzo, etc.) si aggiungono materiali e situazioni di più recente acquisizione, da diversi siti: di particolare rilievo è il caso dell'area sacra di Auronzo di Cadore, da cui provengono iscrizioni in alfabeto e lingua venetici, che sembrerebbero tuttavia esito di ideologia di matrice romana innestata su modelli locali.
Oltre alla prospettiva più propriamente linguistica, la valutazione dei dati non può prescindere da una interazione interdisciplinare (con la storia, l'archeologia, la filologia etc.) che ne accerti la significatività come possibili fonti storiche a tutti gli effetti.

Jorge Martínez-Pinna (Malaga), L'Italia e Roma da una prospettiva leggendaria

El tema de la consanguinitas romano-itálica, que implica la aceptación de una comunidad de origen, surge con fuerza en el siglo II a.C. cuando se plantea la posibilidad de extender la civitas romana a los aliados. La reacción de la clase política romana fue en general negativa, incurriendo así en una grave contradicción histórica, pues la grandeza de Roma descansaba en parte sobre una tradicional política de integración. Pero también se trataba de una contradicción ideológica. Los romanos siempre habían proclamado con orgullo su origen mixto. Aun así, y al contrario de los griegos, nunca extendieron a otros pueblos sus elementos pseudo-históricos. El único mito de synghéneia que se relaciona directamente con Roma es el de su lejano origen troyano, a través del cual fue introducida en el universo griego. Esta mismo motivo fue a continuación utilizado en Italia para establecer una parentela mítica con Roma.
Los primeros en seguir esta vía fueron los latinos, que podían invocar un origen común con Roma, expresado en la figura del héroe Latino y en la celebración de las feriae Latinae. Tras la incorporación del Lacio al dominio romano, la ciudad de Lavinium asume una posición cultural y religiosa destacada. Es posible que en ambientes lavinates se recreasen las tradiciones relativas a Eneas en un sentido favorable a Lavinium, surgiendo antonces la imagen de Eneas como fundador de esta ciudad, la estrecha relación entre Latino y las feriae Latinae y la formulación de la etnogénesis latina a partir de la unión entre aborígenes y troyanos.
En algunas regiones de Italia, aquellas con mayor desarrollo cultural, también se recurre a la vía troyana, pero al carecer de vínculos históricos directos con Roma, se acude a personajes interpuestos. Así, en la etrusca Cortona aparece Dárdano, quien asimismo se vincula a la ciudad latina de Cora. Pero es en la Italia meridional donde se detecta una mayor actividad en la creación de leyendas que se vinculan a los orígenes de Roma. Los protagonistas más frecuentes son Rhomos y Rhome, que aparecen vinculados a Eneas y a otros personajes de la importancia de Télefo e Italo. Por otra parte, en Sicilia se recurre una vía diferente, los sículos, que individualmente o en su conjunto llegan a tener una presencia destacada en el Lacio, Roma incluida.
La mayor parte de estas leyendas de synghéneia respecto a Roma fueron creadas en la época del dominio romano, antes de la guerra social. Su existencia apenas tiene justificación durante la independencia de Italia, y tampoco una vez otorgada la ciudadanía al conjunto de los itálicos, cuando la integración se ha producido ya a través del derecho. Una extraordinaria importancia asume al respecto la leyenda troyana, que se configura como un auténtico mito de imperio. Esta última no sólo asume un papel destacado en las relaciones de Roma con Grecia, sino también de los itálicos con Roma. Incluso sobrepasa los límites geográficos y temporales del mundo romano, convirtiéndose en uno de los vínculos que unen el Medievo con el mundo antiguo, especialmente con el Imperio Romano.

Marta Sordi (Milano), Il paradosso etrusco: il "diverso" nelle radici profonde di Roma e dell'Italia romana

1. Il problema dell'integrazione dell'Italia nello stato romano, affrontato a livello militare nella guerra sociale, ha una svolta decisiva con Cesare e l'affermazione dell'auctoritas Italiae durante la guerra civile e, soprattutto, con Augusto. Mentre con la sua vittoria, ma già fin dall'inizio della sua ascesa, homines novi provenienti dai municipia sostituiscono la vecchia nobilitas, il dibattito sull'integrazione dell'Italia e sulle differenze tuttora esistenti fra le popolazioni della penisola viene affrontato apertamente dalla grande poesia augustea: mentre Virgilio contrappone il genus acre virum, caratterizzato dalle virtù contadine e guerriere delle popolazioni osche, alle virtù familiari, religiose, di impegno nel lavoro che caratterizzano la Roma primitiva, i vecchi Sabini e la fortis Etruria, ed auspica la pacifica fusione fra i due elementi, Orazio coglie l'antagonismo osco-etrusco, condannando l'imbelle pietas e riprendendo i motivi della tryphé che i Greci, e più di recente gli Italici del Sud rinfacciavano agli Etruschi, a causa del loro ritiro dalla guerra sociale.
2. In questo quadro va valutata l'identificazione Etruschi-Troiani, presente nella poesia augustea, e la convinzione, affermata in modo diverso da Virgilio e da Orazio, che Troia deve morire: per integrarsi completamente in Roma pulcherrima rerum ed ottenere con il suo sacrificio l'adempimento delle promesse divine di cui è portatrice, secondo Virgilio; semplicemente perché Roma possa sopravvivere, secondo Orazio.
3. Il paradosso etrusco consiste proprio in questa consapevolezza degli Etruschi di essere diversi e, nello stesso tempo, parte integrante della storia di Roma, di identificarsi con i suoi valori originari e col suo destino e, ancora, di dover rinunciare al proprio nomen, ai propri costumi, alla propria lingua perché la loro storia di popolo è finita: è la teoria dei saecula assegnati a ciascun popolo e la convinzione che il decimo secolo, l'ultimo a loro assegnato, è iniziato nel 44 a.C. Non può pertanto sorprendere il fatto che più di ogni altra etnia italica, gli Etruschi appaiano nel I sec. a.C. i più consapevoli della necessità di questa integrazione.
4. È ancora Virgilio, che rivendica orgogliosamente i meriti dei Troiani-Etruschi nella genesi di Roma, ad assicurare la loro sopravvivenza, dopo la fusione col sangue ausonio, nella pietas: in effetti l'Etrusca disciplina, divenuta ormai religio publica populi Romani, sopravvive con i suoi libri, tradotti sin dal I secolo a.C., fino al tardo antico, appellandosi ad una rivelazione divina che accoglie di volta in volta le categorie delle filosofie che ammettono la possibilità di una rivelazione (il pitagorismo, lo stoicismo, il neoplatonismo) ed arrivando anche ad un incontro-scontro col Cristianesimo di cui sembrano condividere i concetti di creazione e di fine della storia (Suda), ma a cui cercano di sbarrare il passo fin dal III secolo, provocando, secondo Lattanzio, la persecuzione dioclezianea. Agli inizi del V secolo fra l'invasione di Radagaiso e quella di Alarico, assistiamo all'ultimo scontro ufficiale nel cuore della vecchia Etruria, fra gli aruspici, probabilmente i fulguratores di Fiesole, che dichiarano di aver già salvato Narni e promettono di poter sconfiggere ancora i Goti (Zosimo), e la promessa di Ambrogio, morto già da alcuni anni, ai Fiorentini di salvarli il giorno dopo, realizzata poi dalla vittoria di Stilicone sui Monti Fiesolani (Paolino).

Chrysanthe Tsitsiou-Chelidoni (Komotini), Rom, die Römer und die "Anderen" im Werk des Titus Livius

Im Paragraphen 11 seiner Praefatio ergeht sich Livius in einer laudatio der römischen Res publica auf Grund der moralischen Werte, die diese in der Vergangenheit aufwies. Die Stelle selbst und ihr Kontext legen die Vermutung nahe, dass der Autor auch bei seinen Lesern eine ähnliche Bewunderung hervorrufen will. Im Licht weiterer Stellen im Werk scheint ein solches Vorhaben gut begründet. Auch wenn Livius' Ehrfurcht vor den römischen Tugenden eine Abwertung der anderen Völker gegenüber den Römern bedeutet, bezeugt schon die Erzählung über Numa (Ab urbe condita I 18 sqq.), dass der Respekt vor einem Mann, vor Rom und vor dessen tugendhafter Welt als ein einheitsstiftender Faktor zwischen den Römern selbst, aber auch zwischen Römern und Nicht-Römern zu be-trachten ist. Es leuchtet also ein, dass Livius, der die Idee der Eintracht innerhalb der Bevölkerung zu fördern sucht, die Wertschätzung für die römische Moral wie auch für Rom selbst bei seinen Lesern erwecken will, damit diese auf Grund ihrer emotionalen Neigung zum Römertum und zu seinen Vertretern eine gemeinsame Identität ausbilden. Livius selbst spricht unter diesem Aspekt durch diejenigen Personen seines Werkes, die in historisch kritischen Phasen oft mühsam versuchen, durch ihr patriotisches Verhalten bzw. durch ihre flammenden Reden römisch-moralischer Prägung ihr Publikum für das Gemeinwohl zunächst emotional zu gewinnen und somit die Bürger zu einigen und die wegen der Krise ins Wanken geratene römische Res publica wieder zu befestigen. Wenn aber jede Völkerschaft die römische Identität als die alle anderen übertreffende gern teilen wollte, wäre die Expansionspolitik Roms vollkommen gerechtfertigt. Da Livius auch auf diese Rechtfertigung zielt, kann er nicht als unvoreingenommener Visionär eines friedlichen Zusammenlebens aller Völker jenseits aller Unterschiede von Mensch zu Mensch angesehen werden. Zu einer deutlichen Abgrenzung der Ideen dieses Historikers von der Vorstellung eines sogenannten "humanistischen Kosmopolitismus", aber auch zum Nachweis des Interesses seiner Geschichte für unsere Zeit führt ein Vergleich mit den stoisch geprägten Thesen von Martha Nussbaum über die Stellung und Identität des heutigen Menschen als Bürgers einer Welt, in der die nationalen Grenzen sich leicht im eigentlichen und im übertragenen Sinn überwinden lassen.

Daniele Vitali (Bologna), I Celti d'Italia (IV-I sec. a.C.) tra identità e assimilazioni

Polibio è la fonte più antica in nostro possesso a parlarci dei Celti d'Italia. Nel gruppo di capitoli 18-35 del secondo libro - che conosciamo come Keltikà - egli accomuna sotto un medesimo denominatore tali popolazioni, delle quali riferisce i nomi principali, corrispondenti a specifici ambiti territoriali e in parte a proprie azioni di politica "internazionale". Dei popoli "non principali" vengono taciuti i nomi (pléio géne barbàron étera).
Celti - Galli per i romani - rimane il nome collettivo delle novae accolae di barbari radicatisi in Italia che - secondo la visione romano-centrica che ispira l'opera di Polibio - "finchè saranno efédrous non permetteranno mai ai romani di vivere in sicurezza nella propria patria". Galàtai Transalpìnoi sono chiamati gli abitanti del versante alpino rivolto al Rodano, mentre Taurisci ed Agoni sono chiamati gli abitanti sul lato delle pianure [del Po]. Tutti appartengono alla stessa etnia. Il nome di Transalpini è geografico e non ha implicazioni etniche. Secondo Polibio dunque Taurisci ed Agoni sono Galàtai come i Transalpini.
L'etnonimo collettivo che travalica le individualità etniche si afferma per secoli come sigla e sinonimo di "nemici di Roma e della civiltà". Si tratta dunque di una identità etnica creata ad arte e generalizzata a popoli accomunati da elementi percepibili, come la lingua, o da "classificazioni" esterne (l'aspetto, il torquis, il costume), coi quali era comunque necessario regolare i conti sia per eliminare il pericolo incombente di attacchi (II, 13, 6), sia per lasciare liberi territori vitali per l'espansione di Roma in Cisalpina.
Non possedendo testi storiografici dei Celti cisalpini ci sfuggono gli aspetti e i loro modi di autoconsapevolezza etnica o di autorappresentazione. Sono dunque le fonti archeologiche in senso lato (fino ai dati numismatici e linguistici) che possono portare elementi di arricchimento alle concezioni [deformanti e di parte] della storiografia antica. Tra queste due categorie di fonti vi è un rapporto difficile nel senso che il rischio che si corre è quello di condizionare o di forzare in un senso o nell'altro.
I grandi popoli celtici della Cisalpina che volenti o nolenti si confrontano con Roma ebbero territori specifici, i cui confini fluttuarono e si aggiustarono nel corso del tempo. Il loro dominio nelle regioni a sud del Po costituisce un episodio relativamente corto: meno di due secoli prima che Senoni e Boi venissero eliminati come entità politiche autonome. Le diversità che si riscontrano tra loro per habitat (regioni collinari, alta, media e bassa pianura), per facies archeologiche, per i rituali funerari, per la complessità delle proprie articolazioni interne e ancora per le interazioni [privilegiate] con altri popoli (liguri, etruschi, veneti, piceni, umbri, greci ..) se collegati con le fonti letterarie permettono di riconoscere dei raggruppamenti etnici prima della conquista.
Trattandosi in gran parte di popolazioni immigrate ci si aspetterebbe di trovare valorizzati e reiterati molti elementi (ad esempio di ritualità funeraria) che si conoscono nelle ipotetiche zone "di partenza" al di là delle Alpi. In realtà si osservano comportamenti diversificati con casi di "conservatorismo" e casi di assunzione di mode e di abitudini assimilate ad es. dal milieu greco-etrusco d'Italia. In questi fatti di acculturazione l'etnicità diventa un elemento impalpabile e più difficile da cogliere. Le necropoli che sino ad ora si conoscono illustrano alcuni aspetti di tali popolazioni ma il quadro generale rimane troppo frammentario per essere esaustivo e generalizzabile, con vuoti totali per alcune popolazioni in alcuni periodi e con situazioni di sovra-rappresentazione per altri (v. i Cenomani del II e I secolo a.C.).
La conquista romana della Gallia cisalpina portò ad omologazioni culturali, a cambiamenti di status sociali, soprattutto nelle popolazioni transpadane in alcune delle quali il legame con la tradizione e con le proprie specificità fu duramente rivendicato. Ricordiamo i Cenomani che, contro gli altri Celti d'Italia, furono sempre dalla parte di Roma e che nel 186 a.C. rivendicarono il proprio diritto a mantenere le armi [spade] che erano state sequestrate dal pretore M. Furio Crassipede. Allo stesso tempo questi Cenomani sono i Celti che Polibio vede diversi dai Veneti solamente per la lingua, avendo invece i costumi simili a quelli dei Veneti.

Michael von Albrecht (Heidelberg), Ovid und die Romanisierung der griechischen Kultur

Poesie enthält nicht nur wichtige Zeugnisse zur Romanisierung, sie trägt auch aktiv zur Romanisierung bei.
Das Wort "Romanisierung" kann bei der Untersuchung römischer Poesie unterschiedliche Bedeutungen haben. Einerseits kann man im Rahmen der Rezeption fremden Kulturguts durch einen Römer von Romanisierung" sprechen. Bei Dichtern geschieht dies z.B., wenn griechische Mythen so erzählt werden, daß sie der Empfindungsweise der römischen Zuhörerschaft angepaßt werden, aber auch wenn römische Machtstrukturen mit den Verhältnissen im Götterolymp parallelisiert werden. Eine weitere Ebene der Romanisierung ist die Integration und Verschmelzung griechischer Literaturgattungen in das persönliche Oeuvre eines lateinischen Dichters und damit in die römische Literatur.
Andererseits spielt Romanisierung bei der Ausbreitung römischen Kulturguts eine Rolle. Im letzteren Falle tragen die Dichter durch Ausbildung eigener Vorstellungen vom Römertum und von römischer Identität aktiv zur Romanisierung bei. In beiden Beziehungen kommt Ovid eine wichtige, von der Forschung noch nicht voll erkannte Rolle zu.
Untersucht werden im Einzelnen:
1. Die Bedeutung der Regionen Italiens (insbesondere der griechischen Kolonien einschließlich Siziliens) für Ovid.
2. Die Romanisierung griechischer Elemente in ihrer Bedeutung für die Findung einer neuen Identität für den Dichter und neuer Formulierungen römischer Identität.
3. Die spezifische Form und Bedeutung des Einschlusses griechischer Literaturgattungen (vor allem Epos und Tragödie) in der von Ovid neu geschaffenen Gattung der "Heroidenbriefe" mit besonderer Berücksichtigung intertextueller Bezüge, aber auch intratextueller Selbstreferenz.