Convegno 2005: Terror et pavor

Riassunti degli interventi

(elenco in ordine alfabetico secondo i cognomi dei relatori)


M. von Albrecht (Heidelberg), Terror et pavor : politica e religione in Lucrezio


Per capire la fenomenologia del terrore e della paura nell’epoca tardo-repubblicana la testimonianza di Lucrezio è particolarmente preziosa. Essendo quello dei Romani un universo politico e morale fin dall’inizio, persino un poema De rerum natura non tratta soltanto di fisica, ma anche di etica, psicologia e politica.

Terror et pavor è un tema centrale e permanente nel De rerum natura. Non solo il vocabolario in merito è ricco e colorato, ma anche il contenuto abbonda di osservazioni sulla natura, nonché di osservazioni psicologiche di una precisione e finezza sorprendente. La liberazione dalla paura è lo scopo dichiarato dell’opera di Lucrezio. La sua lotta contro il terrore e la paura riflette l’angosciosa atmosfera dell’epoca tardorepubblicana. Lucrezio coraggiosamente attacca l’abuso politico della superstizione, stigmatizza i sacrifici umani a fini politici. Alla paura tradizionale delle divinità pagane il poeta contrappone la liberazione per mezzo del ragionamento filosofico; alla deificazione dei condottieri contrappone la divinizzazione di un maestro, che non riduce in schiavitù l’individuo, ma lo libera; agli dei troppo umani e troppo disumani del paganesimo – oggetto di paura permanente – contrappone la sua idea sublime del divino, libero e lontanissimo dai nostri dolori e timori. Contro un pregiudizio assai diffuso bisogna tenere presente che Lucrezio non è ateo, non elimina la pietas (eusébeia). Lucrezio, benché parli di religio, non attacca la religione, ma la superstizione (deisidaimonía; divom metus 5, 73#) e l’abuso di quest’ultima per giustificare il terrore e la violenza. In un’epoca la quale accordava maestà divina a certi politici è stato un atto coraggioso quello di smascherare l’alleanza non santa di terror politico e di superstizione, di mantenere la dignità assoluta del divino e la libertà dell’uomo. Anche la deificazione del maestro liberatore non è idolatria, ma un antidoto contro gli abusi dell’epoca.

Spesso i poeti catturano con precisione sismografica l’atmosfera di un’epoca; questo fatto potrebbe incoraggiare una collaborazione più stretta tra storici e filologi sui testi poetici. Notiamo infine che sia gli echi lucreziani negli autori cristiani che la “modernità” di certe altre idee lucreziane dimostrano che la sensibilità dei poeti è spesso in anticipo rispetto alla propria epoca.


C. Bearzot (Milano), Atene nel 411 e nel 404 a.C. Tecniche del colpo di stato

Una delle costanti individuate da G.A. Lehmann nei due colpi di stato del 411 e del 404 è la preoccupazione legalistica: nelle fonti, soprattutto di tendenza antidemocratica, si insiste sul fatto che il popolo fu “costretto” dall’emergenza a rinunciare consapevolmente alla democrazia, nel 411 per poter godere dell’appoggio finanziario del Re, nel 404 a seguito della sconfitta in guerra.
Per poter attuare la katalysis del demos con il consenso del medesimo, i rivoluzionari misero in atto una serie di tecniche, che presentano, nei due casi, elementi di continuità e di discontinuità legati alla diversa situazione, ma mirano tutte a paralizzare l’azione del popolo:
1) azione clandestina delle eterie, che ottiene il controllo delle istituzioni democratiche;
2) forme di intimidazione, di violenza, di terrorismo, che creano un clima di diffidenza e di scoramento e portano il popolo all’inerzia;
3) complotti giudiziari, che eliminano i punti di riferimento del demos.
Di recente, limitandosi al caso del 411, M. Taylor ha negato il carattere determinante di queste tecniche per la realizzazione del colpo di stato; dal canto suo, H. Heftner ne ha ridimensionato la portata. L’abbattimento della democrazia sarebbe stato reso possibile dalla mancanza di una efficace reazione popolare, dovuta allo scarso attaccamento del popolo alla democrazia (Taylor), e dalla presa che il programma “moderato” di una parte dei congiurati avrebbe avuto sugli Ateniesi (Heftner).
In realtà queste interpretazioni, che minimizzano l’incidenza delle tecniche sovversive, non tengono conto di un elemento, che peraltro accomuna i due momenti di crisi istituzionale: la mancanza di una efficiente leadership democratica. Essa è pressoché assente nel 411, a motivo del trasformismo di molti uomini politici di estrazione democratica, dell’assenza della flotta e dei suoi capi, dell’eliminazione fisica di alcuni leader; è invece presente e attiva nel 404, ma viene opportunamente eliminata con i processi a carico di Cleofonte e di Strombichide, Dionisodoro e altri strateghi e tassiarchi democratici; in tutti e due i casi, il popolo è costretto all’inerzia dal fatto di trovarsi senza guida. Laddove invece una leadership democratica è in grado di operare, come nella controrivoluzione di Samo, la reazione popolare si manifesta in modo pienamente efficace.
Le vicende dei due colpi di stato confermano il giudizio di Tucidide, che, valorizzando l’importanza delle tecniche sovversive messe in atto dai congiurati, insiste sul problema di leadership che investì Atene dopo la morte di Pericle e sottolinea come l’affermazione delle ambizioni di potere dei singoli a danno del bene comune spezzi l’unità della comunità cittadina, stravolga valori e rapporti di convivenza civica e si traduca in grave fragilità istituzionale.


M. Bettalli (Siena), Hoi ton Hellenon aporoi: i mercenari del mondo greco classico tra emarginazione, violenza e integrazione

1. Tra quanti studiano la società greca del IV secolo, è tuttora in voga l’immagine della polis minacciata nel suo ordine da bande di mercenari, prodotto della crisi economica e sociale. Nutrimento di tale visione sono alcuni passi molto noti di Isocrate e Demostene in primis (cfr. e.g. Isocr. IV 146; 167-168; VIII 44-46; Demosth. XIII 27; XXIII 139). Si tratta di un modello semplicistico, ma anche comodo. In ogni tempo, infatti, da parte dei difensori dell’ordine costituito si cerca di individuare la fonte del terrore fuori della comunità cui si appartiene, cadendo nell’illusione che sia sufficiente estirpare tale fonte per ristabilire una situazione di concordia e di pace.

2. Ovviamente, è vero che i mercenari sono spesso assai pericolosi. In primo luogo, si rendono a volte protagonisti di episodi di straordinaria, efferata violenza: Micalesso docet (Thuc. VII 29.4-5). Che la presenza dei mercenari possa costituire una grave minaccia per la tranquillità di una polis, è dimostrato, p.es., dai Poliorketika di Enea Tattico (cfr. capp. XII-XIII).
Per sostanziare con un esempio questa affermazione, ci rivolgeremo al diario che Senofonte tiene nell’Anabasi dei rapporti che i sopravvissuti dei Diecimila intrattengono con le città greche del Ponto Eusino, una volta superate le montagne dell’Armenia e raggiunta un’illusoria salvezza.

3. Il racconto che Senofonte ci offre di questa parte del viaggio deve essere analizzato con particolare diffidenza. Quando pure Senofonte mette in luce comportamenti a dir poco inquietanti dei suoi compagni, che vanno dalla totale mancanza di rispetto di qualsiasi regola umana nei rapporti con gli indigeni (basti per tutti il terribile racconto che lo stesso Senofonte fa in un’assemblea di tutti i soldati, mentre si trovano a Cotiora: V 7.13-33), al disinvolto uso del ricatto nei confronti delle stesse poleis greche (VI 2.5, nei confronti di Eraclea), al tentativo - a Bisanzio - di prenderla con la forza, Senofonte sembra attribuire la responsabilità di tutto ciò a pochi individui censurabili.
L’importanza che la narrazione riveste concerne soprattutto l’atteggiamento che una serie di comunità greche assumono nei confronti di un esercito che non è espressione di una polis nemica o di qualsiasi nemico identificabile, ma che si trova a passare attraverso il loro territorio e che quindi viene di necessità visto come almeno potenzialmente ostile. Una tale situazione prefigura il rapporto che le poleis greche di IV secolo si troveranno a dover gestire con gli eserciti mercenari.
Il rapporto con le città greche da parte dell’esercito dei reduci di Cunaxa è molto delicato, e richiede intelligenza e moderazione da entrambe le parti: Senofonte sa benissimo che l’ingrediente principale non è certo l’ammirazione o l’amicizia, ma la paura (cfr. V 1.13). La situazione dell’esercito dei reduci appare un po’ patetica: se ne stanno a celebrare agoni in luoghi quanto mai inadatti (IV 8.25-28, sulle colline intorno a Trapezunte), mimando per quanto possibile la vita cittadina, quando cittadini greci, a poche centinaia di metri, li considerano come degli appestati.

4. Sarebbe troppo facile replicare alle accuse di violenza nei confronti dei mercenari con la considerazione che essi non sono certo la causa né prima né unica degli episodi di violenza e terrore: due sole considerazioni a questo proposito basteranno.

a) Enea Tattico, nei già citati capitoli della sua opera, non fa alcuna differenza tra la pericolosità dei nemici interni, degli alleati e dei mercenari.

b) Già David Asheri, nel 1977, notava che la violenza tipica dei mercenari che si impadroniscono di una città - sostituirsi ai cittadini uccisi o fuggiti sposandone le mogli - è in qualche modo una misura che, in altre circostanze, poteva essere presa dalle stesse autorità cittadine per rimediare al flagello che mise a repentaglio l’esistenza di tante città: la scarsezza di uomini.

5. L’ipotesi che i mercenari fossero in buona misura persone in difficoltà - per motivi economici o “politici”, in quanto esuli - è plausibile, ma riguarda solo una parte di essi. A questo proposito, è infatti opportuno ricordare:

a) I casi - pochi, ma significativi, derivati dalle orazioni ateniesi, di cittadini ateniesi di buona condizione che svolgevano a lungo il mestiere di mercenario senza alcuna apparente riprovazione pubblica. Si può aggiungere a ciò la ottima condizione sociale e l’altrettanto rimarchevole livello culturale di molti comandanti mercenari.

b) Il forte senso di identità greca maturato nelle comunità mercenarie (cfr. Anabasi; tra i vari episodi, p.es. III 1.30-32); tale identità era basata, in larga misura, sulla “vita” precedente che i singoli mercenari avevano vissuto come membri rispettabili di comunità cittadine (Trundle).

c) Il caso degli Arcadi. Essi, come tutti sanno, hanno costituito per buona parte dell’età classica una larga percentuale dei mercenari greci in giro per il Mediterraneo; una volta creato, dopo Leuttra, il koinon arcade, è proprio grazie al ricordo della comune esperienza mercenaria che viene rafforzata la loro identità (cfr. Xen., Hell. VII 1.23).

6. Ignoro quanti mercenari ci fossero nel IV secolo: ignoro anche se le volenterose stime di Parke siano attendibili. Credo si possa parlare di un fenomeno in crescita, via via che ci si avvicina all’età ellenistica; ma credo altresì che le stime sul V secolo, in genere, sottovalutino il numero dei mercenari, così come credo che abbia ragione, con altri, Roy nel considerare l’esperienza dei Diecimila sotto il segno della continuità con gli anni precedenti e non come novità.
Condivido comunque le ultime ricerche (Burckhardt e a.) tese a dimostrare che lo “spirito civico” e l’abitudine consolidata dei cittadini a servire come soldati non è affatto morta nel IV secolo e che quindi è comunque opportuno considerare i mercenari una forza complementare, mai sostitutiva dei cittadini.
In ogni caso, i mercenari, quando non sono già inseriti in un contesto sociale di cui sono parte non disprezzabile, cercano con ogni mezzo di rientrare nel mondo da cui sono temporaneamente usciti. Anche le violenze di cui si macchiano tendono, in ultima istanza, a recuperare quel ruolo di politai che nel mondo greco garantisce la rispettabilità. L’immagine del rapporto mercenari/cittadini è quella della porta girevole, non quella del muro.


José Joaquin Caerols (Madrid), Sacrificuli ac uates mentes ceperant (Liu.25.1.8): religión, miedo y politica en Roma


La expresión sacrificuli ac uates mentes ceperant aparece en un conocido pasaje de Livio, referido a la represión, el año 213 a.C., de ciertas prácticas cultuales y adivinatorias ajenas a la tradición oficial de Roma.
Más allá de las evidencias puramente históricas, por sí mismas relevantes, que ofrece el texto propuesto, resulta de particular interés el análisis de las pautas y conceptos principales con que Livio ha construido la imagen que nos transmite de esos nuevos cultos, una imagen que refleja, tanto o más que los los motivos de quienes los reprimieron dos siglos antes, las preocupaciones de los contemporáneos del historiador. En último término, se trata de analizar un discurso que habla de las nefastas consecuencias de la intrusión en la vida de la ciudad de formas no controladas de la experiencia religiosa, de las razones que explican dicha irrupción –que son, mayormente, las angustias e incertidumbres que asaltan a los hombres en épocas de crisis–, de cuál es su forma de operar y de cómo hacerles frente.
Por añadidura, se busca esclarecer el papel reservado en este episodio a los videntes y adivinos o, lo es que es lo mismo, calibrar el alcance de su influencia en la Roma del III a.C., a tenor de la imagen que nos presenta el historiador de Padua.


L. Canfora (Bari), La guerra di Spartaco

1. Panorama critico della tradizione superstite; analisi della ramificazione a partire dai frammenti sallustiani e dalle periochae liviane. Caratteristica peculiare della narrazione appianea e sua efficacia nelle ricostruzioni moderne.

2. Nomadikon ghenos: interventi moderni e interpretazioni possibili. Considerazioni sulla "guerra per bande". Räuber versus Kerl. Dialettica interpretativa tra Marx e Mommsen. Karl Schmitt.

3. Qualche questione testuale.


M. Coltelloni-Trannoy (Marne-la-Vallée), Le furor des empereurs romains

La maladie des princes était non seulement un fait médical et social, mais aussi un élément de l’imaginaire du pouvoir, dans la mesure où ceux qui détenaient ce pouvoir incarnaient la société. Santé et maladie du prince n’ont donc pu échapper à une approche idéologique. Concernant le cas spécifique de la folie, les témoignages littéraires antiques mentionnent un nombre élevé d’empereurs fous, depuis Caligula jusqu’aux princes du IVe s., persécuteurs des chrétiens. Sur ces cas de « folie », les observations strictement médicales sont presque entièrement absentes (caractérisation du type de folie par exemple), tout comme semble avoir été inexistante toute espère de thérapie destinée à soulager les empereurs atteints de ces pathologies mentales. Pourtant les détails sont nombreux sur les manifestations effrayantes qui altéraient le comportement social des empereurs fous ou sur les métamorphoses terrifiantes qui détérioraient leur corps.
L’analogie entre le domaine médical et le domaine éthique et politique n’était pas neuve (elle remonte à Hérodote puis aux médecins et philosophes grecs) et la marginalité était l’un des topoi de la figure tyrannique dans la tradition grecque : les intellectuels romains ont repris et adapté ces notions aux conflits qui soulevaient l’aristocratie sénatoriale contre certains empereurs. Ils ont pris aussi appui sur une large réflexion qui s’était instaurée à la fin de la République pour définir la norme et ses transgressions, et notamment les écarts insupportables : ce courant de pensée avait créé une catégorie nouvelle de monstre, « le monstre moral », meurtrier de ses concitoyens et destructeur de la cité, et dont la folie était la traduction pathologique.
La notion romaine traditionnelle du furor est alors investie d’un sens totalement nouveau puisque désormais elle se définit à la fois sur un plan moral et sur un plan physique. En outre, les manifestations morales et médicales de ce furor sont elles-mêmes en rupture avec la notion que le droit romain avait privilégiée. L’autre volet du furor décrit le prince tyran comme le lieu d’altérations physiques décisives : laideur, ensauvagement (transformation en fauve), maladies déformantes, mort par mutilation ; mais le prince fou est aussi un créateur de monstres en faisant subir aux autres mutilations et tortures ou bien en détériorant la prospérité de l’Empire. La déformation du corps est ainsi au cœur du processus de folie et le support sensible du portrait effrayant que l’on attribua aux princes tyrans.


A. De Vivo (Napoli), La violenza e il terrore: le forme del potere in Tacito

La politica estera di Roma, concepita sostanzialmente in chiave imperialistica, ha una giustificazione ideologica forte nella pax universale, finalità ultima dell’impero. Ma, al di là della falsa coscienza e della propaganda, le forme di esercizio del potere sono la violenza e il terrore. Tra i testi più significativi, al riguardo, si colloca certamente l’Agricola, che nella sua natura ibrida (storia, biografia, panegirico) ricostruisce e propone come modelli autorevoli i comportamenti del generale, suocero di Tacito, nella sua esperienza di governatore della Britannia. Agricola, al suo arrivo, è consapevole di doversi muovere con decisione e tempestività, giacché l’esito delle prime imprese avrebbe condizionato le successive, creando terrore nei nemici (18,3). Il controllo del territorio si fonda sulla capacità di incutere paura; il terrore è una forma di repressione preventiva e Agricola non esita a ricorrere allo sterminio di intere popolazioni (è il caso del genocidio degli Ordovici). Egli non dà tregua al nemico, che tiene sotto pressione con attacchi improvvisi: la devastazione e il terrorismo sono forme strumentali, perché Agricola possa poi mostrare nuovamente i vantaggi della pace e fare sfoggio della virtù imperialistica del generale romano, la clementia, che viene usata soprattutto nei riguardi delle classi dirigenti per convertirle ai valori della res publica. Violenza e paura sono anche i mezzi con i quali i Romani tengono insieme i propri eserciti, nei quali militano i soldati delle province sottomesse, che riscattano così la loro schiavitù: è questa la denuncia di Calgaco, cui controbatte il generale romano nel confronto a distanza.
I comportamenti di Agricola, in linea con il mos maiorum, trovano numerose conferme nelle Historiae e negli Annales: il terrore è sistema di conquista e di controllo del territorio straniero.
L’uso della violenza e della intimidazione caratterizzano, d’altra parte, anche molti aspetti della politica interna. La natura violenta del potere imperiale è una realtà, che il Tacito degli Annales ha modo di approfondire e di narrare. Tre momenti della storia della dinastia giulio-claudia assumono, tuttavia, le forme di una repressione terroristica: il regime di terrore instaurato da Seiano, la repressione spietata e sistematica realizzata da Tiberio dopo la caduta di Seiano, la repressione della congiura di Pisone da parte di Nerone. Proprio questa congiura mancata offre al principe la possibilità di decapitare i gruppi politici e intellettuali dell’opposizione senatoriale.


G. Firpo (Chieti), I due volti dello ‘zelo’ nelle guerre giudaiche di liberazione


Lo zelo per Dio e per la Legge è la fondamentale motivazione religiosa delle guerre giudaiche di liberazione a partire dalla rivolta dei Maccabei (167 a.C.) fino all’ultima, al tempo di Adriano (132-135 d.C.). Il modello storico di questa concezione è costituito dall’azione di Pinehas, nipote di Aronne, e di Elia, che, con la loro iniziativa, stornarono da Israele l’ira divina, uccidendo apostati e idolatri. Lo zelo di Mattatia, padre dei fratelli Maccabei, e quello dei suoi figli – in opposizione alla persecuzione religiosa di Antioco IV Epifane - ebbe, come conseguenza di medio termine, sul piano storico-politico, la liberazione della Giudea dalla dominazione seleucide e la fondazione dello Stato indipendente asmoneo, anche grazie al potente appoggio diplomatico di Roma. Una estensione qualitativamente diversa, e assai più ampia, del concetto di zelo – peraltro già elebarata da tempo nel pensiero tardogiudaico - venne progressivamente affermandosi sul piano storico a partire dall’invasione della Giudea da parte di Pompeo e dalla sua profanazione del tempio di Gerusalemme (63 a.C.). Lo zelo per Dio e per la Legge non fu più finalizzato alla riconquista della libertà religiosa e alla cacciata dello straniero oppressore, ma – in linea con una forma di escatologismo apocalittico già presente nella produzione letteraria di II secolo a.C. (Daniele e Libro dei Sogni, soprattutto) ma che, a quel tempo, non aveva avuto conseguenze sul piano operativo – fu considerato come elemento indispensabile alla collaborazione tra uomo e Dio per l’estirpazione dell’idolatria dal mondo intero, in una visione cosmica che prevedeva, negli ultimi tempi della storia, una battaglia finale tra le forze del Bene (umane e celesti) e quelle del Male (umane e infernali); la potenza terrena che rappresentava le forze del Male era ormai divenuta Roma.
Sulla base di queste premesse, vengono considerate le scelte operative di tipo militare dei vari gruppi di resistenza antiromana durante la guerra giudaica del 66-70 d.C.: zeloti, briganti/ladroni, sicarii, barjone, “galilei”, “idumei”. L’indagine non è semplice, in ragione della natura delle fonti: da un lato, l’opera – peraltro fondamentale - di Giuseppe Flavio offre più di una ragione di incertezza, vuoi per una certa disorganicità strutturale, vuoi per determinate scelte dell’autore, sempre attento alla presentazione e alla difesa del proprio operato sia nei confronti dei romani che nei confronti dei propri compatrioti; d’altro canto, le fonti rabbiniche presentano, accanto a indicazioni di grande significato, problemi d’origine diversa, derivanti dalle scelte “strategiche” operate dal rabbinato dopo le catastrofi del 70 e del 135.
Nonostante tutto ciò, è possibile individuare, almeno per alcuni gruppi, modalità operative specifiche, peraltro suscettibili di evoluzione nel tempo. Alcuni dei rivoltosi si ispirarono, almeno all’inizio e ancora per un certo periodo, a uno zelo di tipo “maccabaico”, con finalità precise e ben ancorate alla storia; altri invece considerarono la rivolta antiromana come l’inizio della lotta cosmica di liberazione che si sarebbe conclusa con l’eliminazione della grande potenza idolatra e con l’instaurazione del regno di Dio sulla terra. La radicalità di questa prospettiva, a cui era estranea qualsiasi possibilità di compromesso e che era inevitabile premessa di sciagure e catastrofi, si rifletteva naturalmente sulle scelte di carattere militare: da qui, alcune considerazioni sul ricorso a tattiche definibili, con terminologia moderna, “terroristiche” (come è stato fatto in una recente edizione dell’Autobiografia di Giuseppe Flavio).


A. Giovannini (Genève), Terrorismo e antiterrorismo a Roma

Secondo la definizione moderna, il terrorismo è il ricorso occasionale o sistematico a azioni di distruzione destinate a intimidare o a terrorizzare le popolazioni. La caratteristica principale di queste azioni di distruzione è che non sono l’opera di individui che perseguono obiettivi personali tali la vendetta o l’arrichimento, ma di persone che fanno parte d’un’ organizzazione segreta che persegue obiettivi comuni di carattere politico.
Nel mondo moderno, le armi generalmente usate dai terroristi sono gli esplosivi. Nel mondo antico gli esplosivi non esistevano, ma esisteva ed è esistita fino ai tempo moderni un mezzo non meno temibile : il fuoco. Il fuoco è stato fino alla metà dell’ottocento la causa principale di distruzione di città e altri abitati ed è rimasto fino alla metà dell’ottocento la paura maggiore delle popolazioni urbane.
In questa relazione vengono esaminati alcuni incendi importanti della città di Roma e di altre città dell’ impero parogonati a alcuni famosi incendi moderni (Londra, Amburgo, Chicago e Tokio). Si perviene alla conclusione che quasi tutti sono sicuramente o molto probabilmente accidentali, ma che sempre o quasi sempre la popolazione attribuisce il disastro a mani criminali e generalmente ricerca i colpevoli tra i nemici reali o supposti dello Stato o della società.
Risulta di ciò che la paura ossessionale ma giustificata dell’incendio crea nelle popolazioni una paura altrettanto ossessionale anche se generalmente erronea dell’incendio criminale molto simile alla paura attuale del terrorismo. Questa paura costringe il governo a ricercare e a punire gli eventuali colpevoli col rischio di condannare innocenti per rassicurare la popolazione, e peraltro a prendere disposizioni legali per eliminare o proibire associazioni suscettibili di ricorrere all’incendio per raggiungere i propri obiettivi. Questo tipo di associazioni, chiamate oggi ‘associazioni a delinquere’ (‘associations de malfaiteurs’ in francese, ‘kriminelle Vereinigungen’ in tedesco) veniva represso dallo Stato romano attraverso la legislazione, molto restrittiva, sulle associazioni. Si dimostra che nel 186 i baccanti furono condannati sulla base di questa legislazione e che i cristiani ne furono le vittime innocenti dopo l’incendio del 64 d. C.


A. Grilli (Milano), Drammaticità del terrore nelle Catilinarie

La congiura di Catilina fu episodio per noi clamoroso di tentativo di sovvertire lo stato politico della repubblica romana. Coincise col consolato di Cicerone e in proposito Cicerone pronunciò quattro orazioni, le Catilinarie, per informare il popolo e trattarne in senato.
Degli avvenimenti abbiamo relazione anche nel De coniuratione Catilinae di Sallustio. Quello che è sintomatico è che in nessuno dei due autori compare segno di un terrore diffuso. Anzi, Cicerone per raggiungere dei toni che possano suscitare emozione dovrà rifarsi al linguaggio della tragedia (Ennio).
Si conclude che non possiamo parlare dell’esistenza di terrore politico a Roma nel 63 a.C.


F. Hinard (Paris), La terreur comme mode de gouvernement (au cours des guerres civiles du Ier siècle a. C.)

Une révolution peut-elle avoir lieu sans que le peuple tout entier se trouve, pendant une période plus ou moins longue, « terrorisé » au point d'en venir à accepter un régime, quel qu'il soit, qui lui garantisse la sécurité de la vie et des biens ? C'est la question qu'on est amené à se poser pour la « Révolution romaine » qui a contraint les Romains à accepter un régime monarchique, quelque horreur qu'ils aient jusque là éprouvé devant toute adfectatio regni.
Or, à y regarder de près, il s'avère qu'au cours du Ier siècle a.C., les Romains ont connu deux périodes, aisément identifiables selon moi, au cours desquelles tous les repères sociaux sur lesquels ils vivaient ont été remis en cause. On est donc amené à examiner comment, dans les dernières décennies de la République, ils ont été soumis à ces régimes de terreur qu'on n'a guère analysés, parce qu'on s'est contenté, le plus souvent, d'analyser, un à un, les actes de violence, les épurations ou, d'une façon plus générale les périodes de troubles, comme s'il ne s'agissait que de phénomènes isolés et, donc sans les relier aux conditions économiques non plus qu'aux peurs religieuses ou aux catastrophes naturelles.
Il semble pourtant que lors des deux « régimes de terreur » que j'ai cru pouvoir identifier, s'est produite une concordance de faits d'ordre économique, religieux, social et politique, qui créaient un climat permanent d'extrême angoisse, faits qui doivent être analysés non seulement pour eux-mêmes, mais surtout comme des « systèmes » consciemment mis en place, voire exploités, par des dynastes désirant asseoir durablement leur pouvoir.
On analysera donc rapidement toutes les composantes de ces deux régines de terreur, pour montrer qu'ils ont été un élément déterminant de la « révolution romaine ». Et on constatera que l'historiographie contemporaine a souvent ignoré ces régimes en tant que tels, sans doute parce que les méthodes employées (la prosopographie, l'histoire institutionnelle) ne nous ont pas permis d'approcher les réalités sociales d'une révolution (qui sont peut-être celles de « toutes les révolutions »).


A. Lintott (Oxford), Violence in the Conflict of the Orders

There are two fundamental problems in relation to the violence of the early Roman Republic – first and foremost inevitably, the reliability of the sources, secondly, in the light of the aspects of the tradition that we choose to privilege, the importance of this violence for the evolution of Roman society. In my discussion today I will concentrate on the first problem, but I hope that this will support my conclusion, that is, that the violence of the Conflict of the Orders should still be treated as influential not only for the development of the Roman constitution but also for the political ideas both of the aristocracy and the plebs.
Although the principal sources belong to the Augustan era, they contain fragments of republican authors and find further confirmation in the speeches of the late Republic. Nevertheless, these latter texts do not guarantee the truth of the material in Livy and in Dionysius of Halicarnassus inasmuch as the speeches were obviously politically tendentious and the historical accounts were the subject of a process of ornatio. The plebeian violence of the early Republic, especially the plebeian secessions, was an important element of popular rhetoric in the late Republic. Similarly, the resistance of the patricians and their partisans contributed to the rhetoric of the optimates in the late Republic. That can be clearly seen in the stories of the three demagogic ‘tyrants’ and of the young nobles. Elements in these accounts go back to the earliest annalists, fitting neatly into a tradition, according to which the early Republic would have been destroyed by stasis if it had not been threatened by foreign enemies. One cannot exclude, theoretically, that this tradition was a fiction of enormous and almost heroic proportions created by the earliest annalists. However, without the Conflict of the Orders it is difficult to explain the peculiarity of the Roman constitution. If we wish to maintain, like Livy and Dionysius, that the Conflict existed but was not violent, we should remember how Cicero, writing from an optimate point of view in De Re Publica, sought to minimise the violence in the Conflict as a malum exemplum, while in pro Cornelio he had spoken to the opposite effect.


A. Luisi (Bari), La terminologia del terrorismo nella vicenda dei Baccanali del 186 a.C.

La relazione comprende due parti: la prima presenta in sintesi il racconto liviano (39, 8-20) della repressione dei Baccanali del 186 a.C. e pone particolare attenzione nell’evidenziare e nel distinguere le parti storiche dell’avvenimento da quelle di pura invenzione; la seconda indaga sul pericolo politico della coniuratio e sulla necessità della repressione voluta dal console Postumio, che ritenne sovversive le adunanze degli adepti ai misteri dionisiaci.
Fondamentale è l’esame del discorso tenuto dal console all’assemblea; le sue parole hanno un chiaro significato politico. A parte l’esordio (15, 2-5), che mira a creare un clima di ansia, e il finale (16, 12-13), che enuncia i provvedimenti adottati, esso si articola su tre punti: diffusione e immoralità dei Baccanali (15, 6-14), rilevanza sociale e politica dell’organizzazione (16, 1-5), falsità dei suoi connotati religiosi (16, 6-11). Soprattutto nell’ultima parte del discorso di Postumio è evidente la preoccupazione di qualificare la repressione in termini strettamente politici, dissipando ogni timore religioso; il console astutamente, nel discorso rivolto al popolo, separa l’aspetto politico da quello religioso. Egli afferma, tra l’altro, che alla tradizione del mos Romanus si oppone la novità, all’ordine il disordine dei Baccanali, alle virtù del miles Romanus la depravazione dell’adepto al culto, la sregolatezza e i comportamenti non virili di stuprati e stupratores: i Baccanali, dice Postumio, rovinano il cittadino, lo devitalizzano, gli impediscono di essere un buon soldato. Tuttavia il reato politico non è stato ancora oggettivamente consumato: lo riconosce il console stesso in un passaggio (16, 3): necdum omnia, in quae coniurarunt, edita facinora habent.
In questo racconto Livio attribuisce significato particolare ad alcuni termini e utilizza parole che si prestano a un doppio senso, come per esempio coniuratio, indicante un’associazione fondata sul giuramento comune di propri membri, ma anche inteso come gruppo costituente un’unità sacrale: il senato valuterà l’aspetto giuridico di questo secondo gruppo e darà significato politico al suo giuramento. Altri termini si presteranno a un doppio significato, come sacramentum, cioè il giuramento comune degli iniziati al culto, differente dal sacramentum prestato dai militari; quaestio, cioè la risposta dello Stato al tentativo di sovversivismo da parte dei congiurati (clandestinae coniurationes), ma anche pieni poteri ai consoli con l’affidamento della procedura (quaestio extra ordinem), nel significato di procedura straordinaria o di procedura che travalica i confini della sola Roma e si estende a tutta l’Italia.
L’esame terminologico si estende infine ad altri monemi particolarmente utili a dimostrare il reale pericolo politico delle conventicole bacchiche. L’intervento autorevole del Senato che sancì la repressione fu sollecitato, secondo Livio, dal console Postumio che aveva ascoltato la confessione di Ispala Fecennia. Ma a muovere i Patres a deliberare un senatusconsultum per reprimere oltre settemila congiurati fu certamente Catone il Censore, del quale, però, Livio tace.


F. Marco Simón (Zaragoza), Intimidación y terror en la época de las Guerras Celtibericas

La estrategia de disuasión a través del terror (recurso psicológico utilizado tradicionalmente por los romanos a juzgar por el texto de Polibio - X, 15, 4 ss.- sobre la toma de Carthago Nova), se ejemplifica de manera inmejorable en las “guerras de fuego” de Celtiberia y Lusitania que ocupan las décadas centrales del s. II a.C. Frente al uso de una estrategia más diplomática en el Este, o en la propia Hispania en épocas anteriores por parte de Sempronio Graco o de Marcelo (probablemente debido a las exigencias requeridas a los ejérci¬tos romanos en otros frentes mediterráneos), la única alternativa aceptada por el estado romano para la finalización de estos conflictos fue la subyugación violenta, que se tradujo a través de la práctica de la amputación de las mano (como en los casos característicos de Serviliano y de Escipión Emiliano), la esclavización del vencido y las matanzas indiscriminadas, amén de los saqueos y el arrasamiento de ciudades, incluyendo el caso de Numancia, sobre el que contamos con opiniones parcialmente discrepantes (Floro I, 34, 11; Orosio V, 7-18; Apiano Hisp. 98). Dos casos paradigmaticos de perfidia en la aplicación de estas soluciones extremas fueron los de Licinio Lúculo y de Sulpicio Galba. Apiano retrata a Lúculo como hombre ávido de gloria y de enriquecimiento, que no dudó en arrasar a los celtíberos de Cauca y degollar a sus habitantes a pesar de la deditio de éstos (Appian. Hisp. 52). De igual forma, Galba llevó a cabo una terrible matanza de los lusitanos, que habían entregado las armas en el contexto de una deditio ante la oferta de paz con donación de tierras, y logró eludir su condena gracias a su riqueza (Apiano. Hisp. 60).
Esa política de intimidación y de terror, manifiesta a través de episodios como los mencionados, se articula además con los elementos característicos del ethos romano y de una antropología dualista que contrapone la humanitas civilizada de los romanos y la feritas con que los autores grecolatinos caracterizan a los celtas en general y, en concreto a los de Hispania: sólo a través de una estrategia disuasoria violenta podía conjurarse la ferocidad bárbara y asegurarse su sumisión.


M. Minkova (Lexington, KY), Terror et pavor in carcere: la testimonianza degli autori cristiani (un confronto tra Prudenzio e Boezio)

Partendo dalla curiosa affermazione di Prudenzio che ‘la prigione abbia l’aroma di nettare’ (Peristephanon, 5, 280), consideriamo il concetto di terror et pavor presso due autori cristiani, Prudenzio e Boezio. Nonostante il fatto che ammettiamo che le ragioni per cui si trovano in prigione i martiri cristiani e Boezio stesso sono diverse, scopriamo due atteggiamenti assai diversi in questi autori. Si riconosce in entrambi che la prigione sia un luogo pieno di terror, ma è diverso il modo in cui questo terror viene superato affinché non inspiri pavor. Per i martiri prudenziani ciò avviene d’una parte attraverso loro spirito combattente militare contra un nemico esterno ben definito, e d’altra parte in seguito al loro chiaro senso dell’utilità del proprio sacrificio. Così in Prudenzio la prigione diventa un’arena di lotta e trionfo, portando in sè il potere di redenzione e salvezza dell’animo. Per Boezio, da cui i concetti s’internalizzano, l’incarcerazione stessa non ha più nessuna rilevanza, visto che l’uomo possa legarsi con catene anche da dentro. La piena mancanza di pavor viene parallelamente con un distacco e liberazione completa dai vincoli terrestri. Questi atteggiamenti pongono i martiri di Prudenzio accanto agli altri esempi dell’eroicità attiva e pratica romana, mentre Boezio sta piuttosto assieme ai romani meditanti al modo greco, quali Cicerone e Seneca, ma anche accanto ai pensatori come Socrate, per cui la prigione era un luogo di meditazione.


G. Polara (Napoli), Tra invasioni e sommosse: dalla certezza sul destino eterno di Roma al saeculum senescens

Violenza e paure, organizzate e casuali, ricorrono nelle testimonianze latine sugli anni del Decline and Fall con tanta frequenza da sovrapporsi quasi alla tematica della decadenza dell'impero e della fine di quello d'Occidente: occupazioni e saccheggi da parte di popolazioni straniere, sommosse e rivolte di ceti subalterni per questioni di immediata sopravvivenza, scontri tra fazioni religiose con uccisioni di massa, non solo per motivi di fede, distruzioni operate da folle di tifosi in occasione di vicende del mondo dello spettacolo e dello sport costituiscono un tessuto che innerva opere storiografiche ed apologetiche, non meno di quella sorta di terrorismo di stato che si configurava nelle repressioni preventive contro cui la storiografia senatoria aveva cominciato a scrivere già dai tempi del principato.
Piuttosto che percorrere una documentazione così vasta o tracciare un sommario status quaestionis sulla sterminata bibliografia, si è preferito rivolgere l'attenzione non agli avvenimenti né alle condizioni di vita, ma alle loro rappresentazioni in scritti a forte componente retorica e spesso poetica, e quindi alle tecniche letterarie che gli autori ritenevano più adatte a rappresentare con efficacia il proprio punto di vista su quanto stava succedendo ai loro tempi, nell'intento di sostenere una tesi in maniera convincente più che di registrare, nei limiti del possibile, la verità sulle fortune o sulle disgrazie tra cui si trovavano a vivere e di cui volevano informare il destinatario dei propri testi in forme consapevolmente tendenziose, ma nel rispetto di regole ben note al lettore (quello contemporaneo, s'intende) e da lui pienamente condivise.
A questo fine si è percorso il testo dell'Eucharisticos di Paolino di Pella, il nipote di Ausonio, che nel corso del V secolo vede sparire tutte le enormi ricchezze ereditate da parte di madre, ma anche provenienti dalla famiglia paterna o acquisite con il matrimonio come dote, per occupazioni, rapine, rivolte che vedono protagonisti tanto le popolazioni germaniche quanto factiones di galloromani avverse ai proprietari più ricchi; il fallimento dei tentativi di fuggire via dalla Gallia per recarsi in oriente, dove tra l'altro era nato e dove era situata gran parte dei suoi possedimenti; la perdita di un figlio coinvolto in un'oscura vicenda alla corte del re visigoto Teoderico II; le paure per la vita propria, per quelle dei parenti e della familia, per la popolazione delle cittadine aquitaniche di Bordeaux e di Bazas in cui trascorse i difficili anni fra il 407 e il 455; l'angoscia per la povertà in cui era costretto a trascorre i suoi ultimi anni testimoniano, nel confronto fra i versi di questo ottantatreenne poeta e quelli del famoso e potente nonno, il passaggio dall'indiscussa fiducia nel mito e nell'eternità di Roma al convincimento che di fronte al disfacimento delle istituzioni e della civilitas unica soluzione è il rifugio in una realtà alternativa, quella della fede che promette generose ricompense per le sofferenze di questo mondo.


W. Riess (Chapel Hill), Dying like a Tyrant: The Semantics of Political Assassination in Fourth-Century Greece

Political assassinations were an intrinsic part of ancient policy-making, deeply rooted in the cultural, mental, and political structures of the time. This article concentrates on political assassinations perpetrated in the Greek world between 404BC and 336BC. A thorough analysis of the source material reveals that the killing of high-ranking politicians were not senseless deeds. They were a meaningful social practice that followed certain cultural rules and depended on the political and strategic circumstances. Basically, we can distinguish two types of assassinations. Each of them conveys a specific symbolic message.
1. In the constitutional hoplite polis murder was justified to get rid of a tyrant or prevent tyranny. A culturally complex semantic system defines what a tyrannicide must look like to be accepted as one. A young man must have the courage to face the tyrant in public and strike him down there in the eyes of witnesses, whose task it is to adjudicate the deed. Only this public display of the deed can help lending legitimacy to it. This condition has a socially stabilizing function, because young men will have thought twice before committing such an assassination. Many compelling reasons must have accumulated to entice someone to really go ahead and kill the ruler of a city. In a way, this high moral and psychological threshold protected the lives of members of the elite at least to some extent. In hoplite poleis the citizenry wanted to be involved in the process of defining the legitimacy of an assassination. In general, the killing of a tyrant was regarded as legitimate (Euphron of Sicyon, Thebes, 366BC; Clearchus, Heracleia Pontike, 353/2BC), although the problem of tyrannicide was already clearly seen (Timophanes, Corinth, 365/4BC). If the assassin failed to portray the dead as a tyrant convincingly and stylize himself as a tyrant slayer, his deed lacked legitimacy and he ran into serious trouble (the family of the Diagoreians, Rhodes, 395BC; Dion, Sicily, 354BC).
2. In established tyrannies and monarchies the common people had no saying whatsoever in the process of defining a political murder as legitimate or illegitimate. The question of legitimacy vs. illegitimacy itself was even irrelevant to the power-mongers at court. Sole rulers were surrounded by their bodyguards most of the times so that they were harder to kill. Plots were necessary to overwhelm them in their private chambers. The killing of a monarch was the court’s business only, it had no or few impact on society as a whole. A dynastic murder carried out in a chamber had often little symbolic meaning. Therefore, the deed could take place behind palace walls and closed doors. In most cases, family members killed their powerful relative, not because he was necessarily a tyrant doing harm to society, but for dynastic reasons only (Polydorus, Thessaly, 369BC; Dionysus I., Sicily, 367BC; Alexander of Pherai, Thessaly, 358BC; the dynastic killings in Macedonia).
It goes without saying that these two scenarios are ideal paradigms. Exceptions confirm the rule (Philipp II., Macedonia, 336BC). According to the assassins’ plans and wishes, the categories could be mixed and transformed so as to convey complex symbolic messages to an audience.


M. Sordi (Milano), L’ira di Atena. Terrorismo e oracolistica fra il 196 e il 191 a.C

1) Dopo la vittoria di Flaminino su Filippo V a Cinoscefale, i Romani concessero ai Beoti il ritorno di quei loro concittadini che avevano combattuto a fianco dei Macedoni e il koinon elesse Brachilla, il più noto di essi, beotarco; i filoromani beotici, che aspiravano all’elezione, lo fecero uccidere a tradimento e in Beozia scoppiò l’odio contro i Romani, che si manifestò con l’uccisione clandestina alla spicciolata dei soldati romani in libera uscita (Liv. 33,29,1 sgg.). Quando Flaminino scoperse i corpi degli uccisi in numero di circa 500, nella melma della palude Copaide, impose una multa ai Beoti, che si rifiutarono di pagarla. I Romani allora si prepararono a marciare contro Coronea e Acraifia, le due città presso le quali i delitti erano avvenuti, ma poi desistettero dalla guerra per intercessione degli Ateniesi e degli Achei.
2) Il ricordo delle vicende del 196, con l’assassinio di Brachilla e le stragi della Copaide, appare ben vivo in Beozia nel 192, alla vigilia della guerra siriaca, e i Beoti, pur non alleandosi formalmente con Antioco III, gli eressero una statua nel tempio di Atena Itonia a Coronea. Acilio Glabrione, dopo aver vinto il re alle Termopili, devastò il territorio del santuario di Atena Itonia a Coronea.
3) Si diffuse in questo periodo una serie di oracoli che minacciavano ai Romani l’ira di Atena e preannunciavano l’invasione dell’Italia e di Roma da parte di un re d’Asia: se ne fece portavoce, poco dopo il 188, Antistene di Rodi in un lungo frammento conservato da Flegone di Tralles (fr. 36 III nr. 257 Jacoby). Il motivo del re d’Asia che marcia contro l’Europa è molto antico e risale almeno alle guerre persiane; esso ricompare in chiave antiromana nei libri Sibillini: solo in quest’epoca però Atena è la protagonista della minaccia a Roma del re d’Asia. Atena Itonia e Tritonide è una delle manifestazioni di Atena Iliaca e del Palladio. È in questo periodo che Roma rivendica il possesso del Palladio.
4) La ripresa da parte di Virgilio dell’Atena nemica: il Palladio e la Madre Idea.




J. Thornton (Roma), Imperialismo e terrorismo. Violenza e intimidazione nell'età della conquista romana

Dopo aver ricordato che l'età che oggi retrospettivamente si può definire ‘della conquista romana’ vide in realtà convivere, confrontarsi e scontrarsi le ambizioni egemoniche di più di un soggetto politico, sia a livello regionale sia a livello mediterraneo, una rapida analisi di alcune caratteristiche del lessico polibiano dell'intimidazione mostrerà quanto chiara fosse la consapevolezza del legame fra paura e dominio, terrore e imperialismo.
Non essendo possibile una considerazione complessiva del ruolo dell'intimidazione e della violenza nella vita del Mediterraneo orientale fra l'accesso al trono di Filippo V e Antioco III e la prima guerra mitridatica – l'area e il periodo cui si limita questa relazione –, si è scelto di concentrarsi su alcuni nodi significativi. Qualche cenno al ruolo dell'intimidazione nella vita politica interna, e in particolare negli organismi investiti a vario titolo del processo decisionale (assemblee negli stati repubblicani, i consigli del basileùs nelle monarchie ellenistiche), consentirà anche di porre il problema della riconoscibilità del carattere intimidatorio, ‘terroristico’ di certi comportamenti attraverso la presentazione di fonti tutt'altro che imparziali.
Quindi, si passerà all'esame delle forme di violenza che precedono l'apertura di un conflitto, quando una comunità rifiuta di piegarsi alle ambizioni egemoniche di cui è fatta oggetto, e quando tenta di cogliere le nuove opportunità che sembra offrirle la situazione internazionale per liberarsi di un'egemonia che pure in circostanze meno favorevoli era stata costretta ad accettare. I casi di maltrattamenti e di omicidi di legati romani, affrontati anche alla luce delle teorie di James Scott, di cui di recente da più parti è stata sostenuta l'utilità per il mondo antico, daranno l'opportunità di una breve digressione sulla pericolosità del mestiere dell'ambasciatore nel periodo in questione; si riprenderà poi, in base a un'analisi più ampia della dinamica della defezione, il problema classico, e assai dibattuto ancora di recente, del massacro degli Italici nelle città d'Asia Minore passata a Mitridate.
Da ultimo, si passeranno in rassegna alcuni casi in cui la destabilizzazione della società a seguito della conquista sembra aver prodotto una situazione di instabilità e di violenza diffusa.